Springsteen è il futuro del Rock & Roll. 9 maggio 1974 l’articolo più famoso nella storia del Rock: la traduzione integrale.

Il 22 maggio 1974, due settimane dopo aver assistito allo show di Springsteen  del 9 maggio all’Harvard Square Theatre, Cambridge, MA, esce sulle pagine della rivista “The Real Paper” l’articolo di Jon Landau “Growing Young with Rock and Roll”, un interessantissimo spaccato del panorama musicale di quegli anni, ma noto principalmente per la famosa citazione “Ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen.”

All’epoca Bruce aveva pubblicato solo due dischi, riscuotendo un certo successo critico e grande favore del pubblico. Le parole di Landau – entrate poi nella storia del rock- come Bruce stesso ricorderà 25 anni dopo, durante la sua presentazione al Rock and Roll Hall of Fame Temple- “se da un lato [mi] segnavano la strada, erano allo stesso tempo un riconoscimento assai impegnativo”. Nell’arco di breve tempo, infatti, si ritroverà sottoposto alle fortissime pressioni della CBS interessata all’incisione di un album che rivelasse al mondo intero quanto attendibile fosse quell’azzardata affermazione sul Real Paper. Dopo alcuni  mesi verrà pubblicato “Born to Run”, che commentiamo stavolta con le parole di Greg Marcus: «Chiunque ami il rock and roll è costretto a confrontarsi con questo lavoro, con il suo catalogo di stili, con la sua musica ruvida e forte, con le liriche che fondono insieme le speranze più luminose e alcuni aspetti più oscuri del sogno del rock and roll». Non c’è altro da aggiungere: Landau aveva vinto la sua scommessa ed era solo l’inizio di una leggenda che dura da più di 45 anni.

Ecco la traduzione!

Growing Young with Rock and Roll – Jon Landau, 1974

«Sono le quattro del mattino e piove. Ho appena compiuto ventisette anni e mi sento vecchio ascoltando i miei dischi e ricordando come erano diverse le cose soltanto dieci anni fa. Nel 1964 ero una matricola alla Brandeis University e suonavo la chitarra e il banjo cinque ore al giorno, ascoltando dischi la maggior parte del resto del tempo, suonando con gli amici durante le ore notturne, esercitandoci sulle note dei Beach Boys  e delle canzoni dei Beatles. Il critico musicale Russell Gersten del Real Paper era il mio migliore amico e insieme davamo un’occhiata ai 45 giri tutti i giorni: Dionne Warwick di “Walk On By” e “Anyone Who Had A Heart”, “Up On the Roof” dei Drifters , “Selfish One” di Jackie Ross,  “Too Many Fish in the Sea” dei Marvellettes e uno di quelli che non si dimenticano “Heat Wave” di Martha Reeves and the Vandellas. In seguito quell’anno una donna speciale chiamata Tamar mi fece conoscere “Midnight Hour”  di Wilson Pickett  e “Respect” di Otis Redding e così mi venne l’ispirazione. Nel frattempo , ero ancora solito andare a letto con al suono di Mr. Tambourine Man” dei Byrds e “Younger Than Yesterday”, ancora uno dei miei album della “buonanotte” preferiti. Mi svegliavo con “Having a Rave-Up” dei Yardbirds al posto del caffè. E per un cambio di passo, c’era sempre il bluegrass: The Stanley Brothers, Bill Monroe  e Jimmy Martin.

Durante il College, ho utilizzato la musica come se fosse il bastone della mia vita. Altri ricorrevano alla droga, alla scuola, ai viaggi, all’avventura. Mi piaceva la musica: ascoltarla, suonarla, parlarne. Qualcuno seguiva l’ispirazione dell’acido, dello Zen, o lasciavano gli studi, io ho seguito lo spirito del rock’n’roll.

 I singoli brani spesso raggiungevano lo status di sacramenti.  Un mese di settembre, stavo guidando attraverso Waltham alla ricerca di un nuovo appartamento quando la musica alla radio mi stordì. Accostai sul lato della strada, alzai il volume e chiesi ai miei amici un silenzio di due minuti e 56 secondi e in seguito capii che Dio mi aveva parlato attraverso “Reach Out, I’ll Be There”  dei Four Tops, un disco amerò finché vivo.

In quegli anni, spesso solitari, la musica era la mia compagna costante e la ricerca della nuova incisione era come una ricerca di un nuovo amico e di una nuova rivelazione. “Mystic Eyes” era una miniera a cielo aperto per tutte le nuove prospettive nel rock and roll e c’erano giorni in cui non potevo andare a dormire senza sentirla una dozzina di volte. Che si trattasse di un approccio nevrotico e maniacale con la musica, o solo un approccio religioso, o entrambi, ma non mi interessava poi tanto. So solo che, allora come ora, sono grato agli artisti che mi hanno fatto vivere quelle esperienze e spero di poter sempre in qualche modo contraccambiarli.

I dischi erano, ovviamente, solo una parte. Nel ’65 e ’66 ho suonato in una band, i Jellyroll, che non ha mai sfondato. All’epoca concludevo che ero troppo di un perfezionista per lavorare con altri membri della band; alla fine capii che ero troppo autocrate, incapace di relazionarmi con altre persone in modo tale da poter condividere la musica con loro. Rendendomi conto che non ero destinato a suonare in una band, ho scelto di gravitare nel settore della critica rock. Partendo da alcuni pessimi trafiletti, passando poi ad alcune recensioni dilettantesche ma convincenti nel primo Crawdaddy, trovai uno sbocco alternativo al mio  desiderio di esprimermi nel Rock: se non ce l’avevo fatta suonando, forse avrei potuto fare meglio scrivendone. Ma in quei giorni, non mi vedevo come un critico – la scrittura era solo un’altra estensione di un’ossessione totalizzante. Si estendeva al mio amore per la musica live, che seguivo anche più dei dischi. Andavo al Club 47 tre volte alla settimana e poi inseguivo i concerti rock – che non erano così facili da trovare perché non erano tutti nei comodi teatri del centro. Impazzii per  lo spettacolo degli Animals di due ore al Rindge Tech; per i Rolling Stones, non solo al Boston Garden, dove fecero il miglior set rock’n’roll di mezz’ora che avevo mai visto, ma al Lynn Football Stadium, dove provocarono dei disordini; per Mitch Ryder e i Detroit Wheels che superarono la peggiore delle condizioni per esibirsi al Watpole Skating Rink; e per i Beatles a Suffolk Down, a malapena udibili, belli da guardare, e la conferma che noi – e io – esistevamo come un corpo speciale di persone che avevano capito il potere e la magia del rock’n’roll.

Ho vissuto quei giorni con un senso di attesa. Ho lavorato da Briggs & Briggs qualche estate e attendevo di conoscere l’uscita dei nuovi album. La delusione quando i nuovi Stones uscirono con un giorno di ritardo, l’euforia quando Another Side di  Bob Dylan uscì con una settimana di anticipo. L’emozione di accendere WBZ e sentire una musica strana, bella o orribile che fosse, ma che chiedeva solo di essere ascoltata ancora; si rivelò poi “You’ve Lost That Loving Feeling”, un pezzo che viene subito dopo “Reach Out I’ll Be There” come strumento di catarsi musicale.

Il mio temperamento è quello che è, spesso mi sono divertito ad odiare quanto ad amare. Condussi una crociata contro quella  merda di San Francisco che aveva corrotto la purezza del Rock che amavo. Il Moby Grape mi commosse, ma quelle canzoni su White Rabbits e l’amore hippie mi hanno fatto ridere quando non mi facevano soffrire. Ho trovato più rock’n’roll nell’isteria doppiata di Got Live if You Want It dei Rolling Stones, che nella maggior parte degli album di San Francisco.

Per ogni momento che mi ricordo ce ne sono una dozzina che ho dimenticato, ma mi sento come se fossero con me in una notte come questa, come parte permanente della mia coscienza, un sentimento perduto nella mia mente, ma mai nella mia anima. E poi ci sono quelle esperienze individuali così trascendentali  che ricordo come se fossero accadute ieri: Sam e Dave con Soul Together al Madison Square Garden nel 1967: ogni gesto , ogni movimento, l’ordine delle canzoni. Darei qualsiasi cosa per sentirli cantare “When Something’s Wrong with My Baby”, proprio come hanno fatto quella notte.

Le ossessioni per Otis Redding, Jerry Butler e BB King sono emerse un po’ più tardi; ognuno di loro ha occupato sei mesi del mio tempo, trascorsi ad scandagliare ogni sfumatura dei loro album. Come per i Byrds, mi rivolgo a loro oggi e ancora trovo, quando meno me lo aspetto, qualcosa di nuovo, qualcosa che sento nel profondo, qualcosa che mi parla. Quando lasciai il college nel 1969 ed entrai professionalmente nella produzione discografica, iniziai ad esaurire il mio apparentemente insaziabile appetito. Non è che provassi un interesse meno intenso di prima riguardo certi artisti; semplicemente mi sentivo così verso numero inferiore di loro. Diventai non solo più esigente ma anche più indifferente. Provavo particolare difficoltà ad ascoltarne di nuovi. Avevo raggiunto abbastanza esperienza a ripiegare sulla musica quando avevo bisogno della sua compagnia, ma in questo periodo della mia vita scoprii che avevo bisogno meno della musica e di più della gente, che trascorrevo troppo tempo della mia vita ignorando.

Oggi ascolto la musica con un certo distacco. Sono un professionista e mi guadagno da vivere commentandola. Ci sono mesi in cui la odio, e attraverso la routine proprio come un venditore di scarpe attraversa la sua.  Seguo il Cinema con la passione che provavo un tempo per la musica. Ma nei momenti di maggior bisogno, non ho mai rinunciato alla ricerca di suoni che possano rispondere a miei impulsi, consumare tutte le emozioni, pulire e purificare – tutte cose che non abbiamo il diritto di aspettarci persino dalle più grandi opere d’arte, ma che possiamo ottenere di tanto in tanto dalla musica.

Eppure, oggi, se ascolto un disco che mi piace non è più il segnale per me per cominciare a indagare su tutto il resto che quell’artista ha fatto.  Li prendo come vengono, li amo e li lascio. Alcuni hanno fatto presa – un paio che mi vengono subito in mente sono After the Goldrush di Neil Young, Innervisions di Stevie Wonder, Tupelo Honey di Van Morrison, i dischi di James Taylor, Exposed di Valerie Simpson, Sail Away di Randy Newman, Exile on Main Street, idischi di Ry Cooder e, soprattutto, gli ultimi tre album di Joni Mitchell – ma molti di più sono scivolati via attraverso la mente, dandomi sensazioni molto più deboli rispetto ai loro omologhi di un decennio fa.

Ma stanotte c’è qualcuno di cui posso scrivere nel modo in cui scrivevo dieci anni fa, senza riserve di nessun tipo. Giovedì scorso [vedi: 9 maggio 1974. La notte in cui Springsteen apre gli occhi a Landau…]  all’Harvard Square Theater [Cambridge, Massachussets] ho visto il passato del rock and roll balenarmi davanti agli occhi. E ho visto anche qualcos’altro: ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen. E in una notte in cui ho avuto bisogno di sentirmi giovane, mi ha fatto sentire come se stessi ascoltando musica per la prima volta.

Quando il suo set di due ore si è concluso riuscivo solo pensare: può esserci davvero qualcuno così bravo? può esserci qualcuno che riesce a dirmi così tanto? può davvero il rock’n’roll parlare ancora con questo tipo di potere e di gloria? E poi ho sentito le piaghe sulle mie cosce dove avevo battuto le mani a tempo per tutto il concerto… e sapevo che la risposta era sì.

Springsteen fa tutto. Lui è un rock’n’roll punk, un poeta latino di strada, un ballerino, un attore, un jolly, un band leader, un cazzo di chitarrista ritmico, uno straordinario cantante e un vero grande compositore rock’n’roll. Guida la band come se lo facesse da sempre. Mi sono tormentato il cervello, ma davvero non riesco a trovare nessun altro artista bianco che fa tante cose così superbamente. Non c’è altro artista che preferirei vedere su un palco oggi. Ha aperto con il suo favoloso brano da festa “The E Street Shuffle”, ma rallentato a tal punto che sembrava una nuova canzone, e ha funzionato, così come la vecchia. Ha suonato la sua travolgente storia di un suicidio, “For You” ed ha cantato accompagnato solo dal pianoforte e una voce che risuonava fino all’ultima fila dell’Harvard Square Theatre. Ha fatto tre nuove canzoni, tutte da rock di strada, una anche con un’intro di chitarra con il “Telstar” [n.b. si trattava della ancora sconosciuta “Born to Run”] e di un ritmo alla Eddie Cochran. Abbiamo perso l’udito su “Four Winds Blow”, fatta come in chiusura della sua sensazionale serie di concerti durata una settimana al Charley’s, ma “Rosalita” non l’ha mai suonata meglio e “Kitty Back”, uno dei grandi shuffles contemporanei, mi ha scaraventato giù dalla mia sedia per condurre personalmente il pubblico ai suoi piedi e tenerlo lì.

Bruce Springsteen è una meraviglia da guardare. Magro, vestito come un reietto da Sha Na Na , sfila davanti alla sua band come un incrocio tra Chuck Berry, il primo Bob Dylan e Marlon Brando. Ogni gesto, ogni sillaba aggiunge qualcosa al suo obiettivo finale –  quello di liberare il nostro spirito, mentre lui libera il suo mettendo a nudo la sua anima attraverso la sua musica. Molti ci provano, pochi riescono, nessuno più di lui oggi.

Ora sono le cinque del mattino – e sto scrivendo queste colonne più veloce che posso per paura di tralasciare qualcosa– e ascolto  “Kitty Back”. Mi sento vecchio, ma questo pezzo e il mio ricordo del concerto mi fanno sentire un po’ più giovane. Sento ancora lo spirito e ancora mi commuove.

Ho comprato una nuova casa questa settimana e al piano di sopra in camera da letto c’è una bella addormentata che capisce fin troppo bene quello che cerco di fare con i miei dischi e la mia macchina da scrivere. A proposito di rock’n’roll , i Lovin’ Spoonful una volta cantavano: “Io ti racconto la magia che libererà la tua anima / Ma è come cercare di raccontare a un alieno del rock’n’roll”. Giovedi scorso, mi sono ricordato che la magia esiste ancora e finché scrivo di rock, la mia missione è raccontare a un alieno di rock – basterà ricordarmi che io sono l’alieno per il quale sto scrivendo.

Jon Landau

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