L’intervista di Bruce Springsteen a Steve Van Zandt: ecco la traduzione!

Per la prima volta, il 28 settembre scorso, Bruce Springsteen ha lasciato i riflettori per lasciare tutto il palco al suo grande amico e compagno di band Steve Van Zandt. L’occasione si è presentata con la pubblicazione di Unrequited Infatuations, il libro di memorie di Van Zandt, appena uscito in America e in arrivo tra quindici giorni in Italia con Il Castello, per la collana musicale di Chinaski Edizioni. L’intervista è molto bella e, considerati i tanti temi interessanti toccati, abbiamo pensato di tradurla integralmente sicuri di fare cosa gradita a tutti i fans. Buona lettura!

BRUCE: Sono Bruce Springsteen sono qui con Steve Van Zandt nel giorno della pubblicazione del suo favoloso libro e noi due… siamo stati così stupidi da non portarne una copia qui per la nostra intervista. [Risate]. Ma è uscito e potete trovarlo nelle librerie o online. C’è quest’uomo sulla copertina [indicando Steve]. Stevie, ci siamo incontrati per la prima volta all’Hullabaloo di Middletown. Ricordo che entrai e vidi un ragazzo sul palco con un cappello a cilindro e una lunga cravatta che cantava “Happy Together” dei Turtles. Stringemmo immediatamente un’amicizia che è andata avanti viaggiando insieme a Greenwich Village. Dove vivi ora? Cosa ti ricordi di noi all’inizio e del nostro primo incontro e dei nostri viaggi al Village?

STEVE: E’ divertente ricordare che The Turtles hanno giocato un ruolo importante anche nella nostra svolta con i successi single… è giusto così.

BRUCE: Sì, hanno cantato “Hungry Heart”!

STEVE: Il cerchio si chiude. Dunque i Beatles erano stati all’Ed Sullivan Show credo il 9 febbraio 1964. Improvvisamente siamo passati in un giorno da un paese con poche band ad uno in cui tutti avevano una band, ma per lo più rimanevano nel garage dove nascevano. Solo una dozzina band uscivano e andavano in giro. Noi eravamo tra questi e siamo stati fortunati, siamo una generazione fortunata. Andavamo in tanti posti a suonare e tra quella dozzina di band che giravano nel nostro mondo ci conoscevamo tutti. Perché era insolito essere in una band in quei giorni, era qualcosa di speciale non era ancora un business…

BRUCE: Hai detto che nessuno suonava e poi tutti hanno suonato…

STEVE: Se andavi a ballare al liceo c’era una band strumentale

BRUCE: Vero

STEVE: Non avevamo la cultura della “band” fino a quando letteralmente i Beatles non hanno cambiato il mondo da un giorno all’altro. Ma come ho detto, tutti avevano una band ma per fortuna sono rimasti nei loro garage ad eccezione di una buona dozzina di noi che se ne andava in giro. E così ci siamo incontrati all’Hullabaloo club. C’erano otto o nove fantastici programmi televisivi dell’epoca, puoi immaginare un mondo dove avevi otto programmi tv rock and roll in onda ogni settimana… è stata un’epoca fantastica in cui crescere. Comunque all’Hullabaloo, era tutto perfetto, aveva un franchising, era a Middletown tra Asbury e Freehold e si era creato una specie di circuito, con i club sulla spiaggia sul quarto lato di quel quadrilatero. Quindi ci incontrammo quella notte. A proposito di quello che ci ha veramente aiutato a legare… io iniziai a salire al Village nei fine settimana dove il pomeriggio si esibivano band al Cafe Wha?  che erano circa un anno avanti a noi del New Jersey in termini di raffinatezza.

BRUCE: Giusto

STEVE: Quindi andavo lì a “rubare” idee per usarle nella mia band e le prime volte ti incontai lì, che era molto insolito.

BRUCE: Neanche mi ricordo come siamo finiti lì tranne il fatto che avevamo deciso di andare il più lontano possibile dalla nostra piccola zona e che dovevamo andare a New York per essere scoperti, e suonare in qualche posto nella città.

STEVE:  Bene, questo era “pensare avanti”

BRUCE: Con i Castiles

STEVE:  In realtà tu suonavi all’epoca al Cafè Wha?.

BRUCE: Sì ci suonavamo

The Castiles al Cafe Wha? New York City, Novembre – Marzo 1967 (Da sinistra a destra: Springsteen, Popkin, Fluhr, Theiss, Manniello) Photo by: Bob Alfano

STEVE: Non ero mai arrivato così lontano ma dovevi pensare sempre al futuro, dovevi sempre proiettarti in avanti. Era proprio per incontrare qualcuno. Era solo a un’ora e 15 minuti di distanza con l’autobus ma era come andare a Parigi! Così pensai che questo ragazzo era interessato proprio come me e credo che abbiamo legato immediatamente perché eravamo gli unici ragazzi che conoscevamo completamente presi dal rock and roll. Non era una tendenza, una moda, un hobby per noi era tutto

BRUCE: Era la vita e la morte, o è questo o niente…

STEVE: Non avevamo un piano b e non conoscevo nessun altro così tranne te. Ed era estremamente importante in questo periodo perché sai…se sei l’unico fuori di testa in giro cominci a porti delle domande, ma se siamo in due, forse c’è qualcosa che realmente possiamo fare. La gente fa fatica ad immaginarlo, ma non è stato un business fino agli anni ’70. Se eri in una rock and roll band negli anni ’60, dovevi essere un po’ fuori di testa.

BRUCE: Una delle cose che ricordo è che la prima volta che ti ho visto a Middletown eri un puro frontman, non avevi neanche la chitarra. Poi all’improvviso penso di averti visto… non con gli Shadows ma con la successiva band che hai avuto…

The Shadows da sinistra a destra: John Miller (bass), Bruce Gumbert (organ), Steve Van Zandt (vocals, guitar, maracas), Bob McEvilly (drums), Bud Norris (lead guitar, vocals) e Chris Plunkett (guitar). maggio 1966

 

STEVE: La band con cui ho iniziato a suonare la chitarra era The Source

BRUCE: Infatti e all’improvviso ti ho visto davanti a The Source che suonavi davvero bene la chitarra. Avevi fatto dei progressi straordinari da The Shadows a The Source.

The Source Da sinistra a destra: Chris Plunkett, Bob McEvilly, Bruce Gumbert, John Miller and Steve Van Zandt, April 1967

STEVE: Ci ho messo un anno circa per passare da front man a chitarrista. Ho cercato di capire “posso farlo? posso trovare un modo per farlo?” ed è stato molto divertente trovare il posto cui sentivi di appartenere. Perché fino ad allora non riuscivo a capire come volevo essere, non volevo andare al college, non volevo andare a fare il militare, non c’era un lavoro che mi attraesse. Che regalo che ci ha fatto l’invasione britannica con tutte quelle band… e quella cosa proibita mi attrasse, non ero interessato allo show business. Ascoltavo i solisti del passato o i gruppi, mi piacevano i dischi e ne avevo comprato alcuni ma non associavo necessariamente il disco all’artista… fino a quando sono arrivate le band. La “band“ era legata al concetto di amicizia, famiglia e comunità e questo è ciò che mi attrasse. Non era tanto lo showbiz.

BRUCE: Giusto. Quello che ricordo era il livello di dettaglio in cui entravamo, che faceva parte della costruzione della tua identità in quel momento, dai capelli ai vestiti. Ricordo che si discuteva sul Jeff Beck Group o i Led Zeppelin… l’argomento centrale era chi fosse il migliore ed è stato meraviglioso avere qualcuno con cui discutere di tutte queste minuzie. Ma quello era l’essenziale, una sorta di spirito ed essenza del rock and roll. Pensaci, il fatto che abbiamo stretto un’amicizia, che ci siamo trovati è un miracolo! Ci siamo trovati e abbiamo stretto un’amicizia che dura da 50 anni e siamo nella stessa band. E’ semplicemente incredibile. E tu cogli l’essenza nel tuo libro, sottolinei quanto sia centrale l’idea di una band. Due temi nel tuo libro sono molto interessanti, il tuo sviluppo musicale e la tua politica, che coesistono fianco a fianco, come hai scritto. Il libro inizia con il tuo sviluppo politico, con te sul sedile posteriore dell’auto nel Sud Africa. Quindi penso che la gente sarebbe interessata a sentirne parlare. Alla fine degli anni ’70 quando i dischi di Southside venivano registrati, tutta la musica, tutto il tempo, proprio tutto era dedicato allo sviluppo, come dici tu, dei cinque mestieri del rock and roll. Vorrei che li esponessi sinteticamente, prima di buttarci nella questione politica. Spiega i cinque mestieri del rock and roll!

1971-05-14 Sunshine In, Asbury Park – Left to tight: Steve van Zandt, Vini Lopez, Bruce Springsteen, Albee Tellone, Soutside Johnny, Bobby Feigenbaum.

STEVE: Bene, quando inizi c’è solo una cosa che sai: vuoi imparare a suonare la chitarra, la tastiera o qualunque strumento tu suoni, o a fare il cantante. E poi ci arrivi e questa è la prima cosa che ovviamente devi imparare: a suonare il tuo strumento. La seconda cosa è mettere su una band. Dovrai trovare tre, quattro, cinque, ragazzi che la pensano come te e condividono il tuo gusto, e creare una lista di canzoni. Poi dovrai imparare quelle canzoni, e quando le avrai imparate le dovrai analizzare.

BRUCE: L’allenamento dell’orecchio…

STEVE: Questo è il punto di partenza per imparare ad arrangiare. Cosa fa la chitarra? Cosa fa il basso? Cosa fanno le percussioni e perché? Inizia ad analizzare le canzoni, smontale e rimettile insieme e questo è il secondo stadio. Il terzo mestiere riguarda la performance e questo è qualcosa che molte band oggi trascurano ma è un grande errore. Dovrai trovare un club o un locale, come abbiamo fatto noi (dove ci può anche stare una cattiva serata) ma inizia a suonare per le persone, eseguendo quelle 50 canzoni che sai di aver imparato. Una cosa è ascoltare le canzoni che conosci alla radio o da un disco, e un’altra cosa è suonarle. Le assorbi in modo completamente diverso e improvvisamente inizierai a imparare a esibirti, a interagire con un pubblico, a interagire con la band. Imparerai a capire l’effetto che ha una canzone su un pubblico, cosa ti succede quando suoni una certa canzone. Questo terzo punto è molto importante e ti porta al quarto mestiere che è la composizione. Inizierai a scrivere canzoni e avrai degli standard che stabilirai imparando da quelle tue 50 canzoni preferite che conosci bene. Anche se ti sembrerà difficile, dovrai provarci. Prova e cerca di raggiungere quegli standard e inizia a infilarli nel set. La scrittura deriva dagli standard che hai stabilito. Poi il quinto mestiere è la registrazione. In realtà non devi necessariamente imparare, puoi assumere un produttore che lo fa per te, ma più ne sai… meglio è. Saprai quello che vuoi, cosa sta succedendo… il che significa che l’intera questione ha a che fare con quanto riusciamo a controllare il nostro destino. Ecco di cosa si tratta, non ci adattiamo al mondo normale, quindi in qualche modo creeremo il nostro mondo o faremo parte di questo altro mondo che è, immagino, lo spettacolo in senso lato, il rock nel nostro caso. Ci stai entrando, stai creando un mondo completamente nuovo, fai parte di un mondo completamente nuovo perché in qualche modo vuoi controllare il tuo destino e più conosci questi cinque mestieri più controllo avrai.

BRUCE: Penso che nel libro emerga con chiarezza attraverso la descrizione di quei cinque mestieri che se vuoi controllare il tuo destino devi imparare. E penso al valore inestimabile degli anni di club che abbiamo fatto e come questi ci hanno preparato a rivolgerci al pubblico dal vivo per il resto della intera vita.

STEVE: Vero. E in più ci è successa una cosa insolita. Per lo più la gente aveva smesso di ballare il rock and roll verso la fine degli anni ’60, ma nel mondo dei bar era un po’ come vivere nel passato. Si ballava ancora negli anni ’70…

BRUCE: Affascinante. Noi suonavamo con la band in un teen club, uno della dozzina di posti disponibili per una giovane band di adolescenti che volesse suonare. Se volevi assumere una band a quei tempi, dovevi assumere giovani adolescenti. Non c’erano persone anziane che lo facevano, erano tutte in band da matrimoni ed erano miglia e miglia distanti dalle rock and roll band all’epoca. Quindi assumevi una band al beach club o altrove ma ti rivolgevi ai ragazzi, cosa che oggi non esiste. Oggi ti rivolgi ai vecchi.

STEVE: Giusto e tra l’altro avevamo totale libertà…

BRUCE: … di suonare quello che volevamo

STEVE: … perché non avevano idea di cosa stessimo facendo.

BRUCE: E quando suonavamo nei club per adolescenti c’era un punto negli anni ’60 in cui la gente entrava i fine settimana e si sedeva per terra. Si sedevano sul pavimento iniziavano a guardare la band come un concerto…

STEVE: in parte con le droghe o in parte qualcosa altro ma andava bene così

BRUCE: E’ stato un cambiamento culturale

STEVE: … era un mondo diverso. E ora stanno ancora ballando ed era davvero importante per noi… perché? Perché sei una dance band, cosa significa? Lo stesso è successo per i Beatles, i Rolling Stones e tanti altri… erano tutte dance band il che significava dover usare più energia ed essere più aggressivo per far alzare quelle persone dalla sedia e farle ballare. E questa è diventata una cosa davvero importante per noi. Perché se non ci riuscivi, venivi licenziato il giorno dopo. Se la gente non ballava, per te era finita.

BRUCE: Quella volta che andammo allo Student Prince un sabato sera… Eravamo tu ed io e il locale era vuoto e avevamo setacciato l’intera città e trovammo il club vuoto. Quel sabato sera d’estate facemmo il peggior affare possibile: chiedemmo al ragazzo di farci suonare e in cambio non ci avrebbe pagato. Noi avremmo preso solo un dollaro alla porta, per ogni persona che entrava. Chiese “Cosa avete intenzione di suonare?”, e noi rispondemmo “suoneremo quello che vogliamo” e lui disse “non credo”. Il ragazzo stava morendo e ci disse inizialmente di no ma in qualche modo gli parlammo e iniziammo il nostro stand presso lo Student Prince che era un piccolo club nel sud di Asbury Park dove abbiamo fatto uno dei nostri ultimi stand, uno dei nostri tanti ultimi stand…

STEVE: E’ fantastico perché è lì che si è presentato Clarence e poi entrarono i clienti, ma non fu un successo… Fu solo dopo non so quanti anni, tre,  quattro o cinque anni, che io e Southside andammo allo Stone Pony. Il tetto era crollato, stavano per chiuderlo, non stava facendo affari e dicemmo “prenderemo l’ingresso e null’altro, tu il bar e noi la porta, ma suoneremo quello che vogliamo!”

BRUCE: Un avvertimento!

STEVE: Per una volta – e per la prima volta penso nella storia del Jersey e forse nella storia americana – ci hanno permesso di farlo, perché non gliene fregava nulla: stavano per chiudere e qualunque cosa facessimo, qualunque cosa volessimo suonare, andava bene… E’ stato davvero un grande momento perché non stavamo ancora facendo brani originali, stavamo iniziando a scrivere ma suonavamo le tracce dell’album di Sam and Dave. Devo dire che fu un importante momento. Io, tu e Southside e non so chi altro forse Gary, andammo a vedere Sam and Dave in un locale.

BRUCE: Lo vedemmo suonare al Fast Lane e poi penso che andammo al Satellite Lounge in Fort, da qualche parte del sud del Jersey, sì… al Satellite Lounge, dove poi avremmo suonato per un po’ all’inizio con la E Street Band ai tempi dei primi due dischi. Ma al Satellite Lounge andammo e vedemmo Sam and Dave sì me lo ricordo… ci stesero.

STEVE: Fu incredibile! Noi eravamo così vicini e loro erano ancora al loro apice ma…

BRUCE: …erano in un piccolo locale che poteva contenere solo poche centinaia di persone.

STEVE: Così io e Southside decidemmo di essere la versione bianca di Sam and Dave e formammo The Jukes. Ma come ho detto ce l’avremmo fatta solo se la gente avesse ballato. E andò bene perché attingevamo da molta musica degli anni ’60 e dei primi anni ’70, quando il pop era ancora fantastico.

BRUCE: C’erano un’infinità di dance band…

STEVE: C’erano Otis Redding, Sam and Dave, gli Stones e altri. Noi dovevamo diventare una dance band e prendere quell’energia in più per far alzare la gente dalle sedie e ballare tutta la notte per quattro o cinque ore.

STEVE: Ma facesti una scelta importante non solo riguardo i suoni degli Asbury Jukes – ciò che la gente chiamava il sound di Asbury – ma anche introducendo i fiati, il che era quasi proibito all’epoca nel rock and roll, tranne che probabilmente per i Blood, Sweat and Tears a Chicago. Non so se quei gruppi fossero in giro al momento quando voi ragazzi suonavate a metà degli anni 70.

Pic from web

STEVE: Non li vedevi in giro nei locali del posto primo di tutto perché era troppo costoso…

BRUCE: Sì era una cosa diversa. Quello ha reso la band assai divertente e siete stati davvero al centro della vita rock and roll di Asbury Park per tutti gli anni ’70. E’ stata una grande band ed è stata davvero una magnifica cosa averla come house band al Pony tre sere a settimana…

STEVE: Si inizia con 50 persone, 800 e 200… prima che tu te ne renda conto con tre notti a settimana conosci un migliaio di persone, il club si espande…era diventato il più ricco che c’era mai stato.

BRUCE: La cosa interessante era che Steve e io avevamo un tale legame di anime… che non si poteva davvero resistere. Ognuno aveva le sue innate caratteristiche, ma detto ciò dovevamo solo stare nella stessa band. Voglio dire, come si fa ad avere tutto questo in comune e non condividerlo sul palco in uno dei luoghi più centrali della tua vita! Immagino fosse il 1975 o qualcosa del genere quando tu sei entrato nella E Street Band…

STEVE: Sì, c’erano ancora problemi… con sette concerti già prenotati

BRUCE: … quando è uscito Born to Run

STEVE: Sì, stava uscendo Born to Run ed era già uscito il singolo mesi prima. C’era un po’ di aspettativa perché le stazioni radio lo stavano trasmettendo ma ora stava per arrivare l’album e avevamo sette concerti già prenotati. Mi sono detto “voglio mettere giù la chitarra per un minuto” perché stavi per vivere il tuo primo grande cambiamento in termini di persona e tutto il resto. Ed è stato molto significativo.

BRUCE: Devo proprio raccontare una cosa, Steve ha fatto tante grandi cose per la E Street Band e il mio lavoro, ma questa potrebbe essere la cosa più importante che lui abbia mai fatto. Stiamo facendo Born to Run, lui arriva in studio, si siede e io gliela suono… e lui fa “amico, adoro quel riff ma fallo in minore, vai al minore” [Bruce prende la chitarra e accenna il riff]

STEVE: è come Roy Orbison, come i Beatles…

BRUCE: Io piego la nota e lui “no, no in minore, in minore così!” [Musica] e Steve dice: “non è questo quello che senti”…

STEVE: Bisogna dire che ci stavi lavorando da mesi a quella canzone, da molto tempo…

BRUCE: Quindi Steve è arrivato, e faceva così [suona il riff]

STEVE: … perché ci stavi lavorando da tanto tempo e il tuo orecchio e quello degli altri cominciavano a non percepire la differenza di suoni. Tutti pensavano che stessero facendo un maggiore.

BRUCE: Non voglio dilungarmi troppo, ma è stato grazie a dio che Steve è entrato in studio quella notte e ha cambiato un po’ la storia del rock.

STEVE: Mi piace ancora il piccolo cambiamento in minore, ma… sarebbe stato altrettanto grande.

BRUCE: Parliamo ora di come la musica rock ti ha portato alla vita politica, perché questo è l’altro grande tema del libro. E’ una parte essenziale del cambiamento da Miami Steve in Little Steven. Miami Steven con Southside Johnny e gli Asbury Jukes era tutta musica, musica e musica e tanto divertimento e la vita politica era intenzionalmente una sorta di “no, quello è un altro mondo”. Sei arrivato da quello a fare della politica una parte centrale di molti tuoi dischi, una parte così essenziale della tua vita tanto da diventare un attivista a un livello che io non ho mai avuto coraggio di fare. So che ha avuto a che fare con la E Street Band quando andammo a Berlino est nel 1980 e io e te attraversammo il Checkpoint Charlie. Questo segnò e cambiò tutti ma soprattutto te. Parlane un po’.

STEVE: Fu con il The River Tour che finalmente stavamo facendo in Europa e un ragazzino venne da me e disse “perché state mettendo missili nel mio paese?”. E io “non li stiamo mettendo, di cosa stai parlando?” e lo ignorammo con un “non dire stupidaggini”. Ma non riuscii a togliermi dalla testa quella domanda per settimane e ci continuavo a pensare. Intanto avevamo avuto successo… era un po’ che ci stavamo lavorando, 15 anni…. è stata una lunga gestazione!

BRUCE: Era nel 1980 ed ero ancora al verde

STEVE: Esatto, ma ci mancava poco, stavamo per attraversare quella porta… in realtà sfondammo con un singolo di successo appena in tempo. Il successo ci dette quella visione in prospettiva che tutti noi dovevamo avere per arrivare dove siamo arrivati. Iniziavi anche a chiederti cosa ti eri perso negli ultimi 15 anni. Così inizi ad aprirti un po’ e questo ragazzo viene e ti chiede perché metti i missili nel suo paese. E’ come se mi avesse colpito con una tonnellata di mattoni. Quando viaggi all’estero non sei un chitarrista o un tassista, un repubblicano o un democratico: sei un americano. Mi cominciai a chiedere cosa ne sapessi dell’argomento… è un po’ imbarazzante ammettere che questo pensiero mi è arrivato all’età di 30 anni e che non mi era mai venuto in mente prima. Sei un americano e cosa significa? Che responsabilità ne deriva? Quali obblighi comporta l’essere un cittadino americano? Siamo in democrazia – non proprio in una democrazia, ma qualcosa di molto vicino – in cui hai una certa responsabilità per ciò che il tuo governo fa. E mi sono chiesto “cos’altro il mio governo ha fatto a cui non ho prestato attenzione?”. Ho iniziato a leggere libri per la prima volta nella mia vita, a leggere della nostra politica estera dalla seconda guerra mondiale in poi ed è stato scioccante scoprire che non eravamo affatto quegli eroi della democrazia ovunque nel mondo come pensavo che fossimo. Sono cresciuto con un padre repubblicano ex marine Goldwater, quindi sapevo tutto di quella roba sui conservatori, come pensano i conservatori …

BRUCE: Ricordo che mi desti dei libri sui Contras e alcuni volumi delle tue prime letture politiche…

STEVE: “Bitter Fruit [“Bitter Fruit: The Story of the American Coup in Guatemala” di Stephen SchlesingerStephen Kinzer] e dicevo “cazzo, devi farlo, leggi questo… guarda cosa sta succedendo”. Quindi ne ero diventato un po’ ossessionato. Avevo iniziato a sentirmi come l’uomo cittadino tedesco che negli anni ’30 sta lì mentre radunano gli ebrei per metterli nei campi. Stavamo facendo tutte queste cose cattive in America Latina, come uccidere le persone con le nostre tasse in dollari per conto delle multinazionali che lavorano con i dittatori locali e stavamo supportando l’intera cosa per conto di interessi commerciali. Questi non erano gli ideali dell’America che pensavamo di avere e non erano quelli che aveva mio padre…

BRUCE: Del resto è stato affascinante perché sei passato dal tuo primo disco da solista “Men Without Women” – dove si può tracciare un vero collegamento con le radici “Southside” e con quel suono, un disco fantastico, uno dei miei dischi da solista preferiti – a “Voice of America” che è stato davvero l’inizio del tuo lavoro ad alto contenuto politico e che ha fatto crescere la tua anima…

STEVE: Non ho avuto una coscienza politica fino agli anni ’60 quando c’era un sacco di politica in corso…

BRUCE: Abbiamo suonato alle manifestazioni anti-Vietnam ed eravamo coinvolti in piccoli modi.

STEVE: Sì ma non veramente. Per quanto mi riguarda io ero ancora concentrato tutto sulla musica come hai detto tu. Così all’improvviso ho iniziato a diventare quell’artista/giornalista che fa ricerche, trova soggetti… Lo sai, abbiamo a che fare con una forma d’arte narrativa, quindi non si tratta di dare informazioni, ma di raccontare storie. Così cercavo un argomento e lo trasformavo in storia. Mettevo una lista di libri sull’album perché quello che facciamo non è comunicazione di informazioni, ma soprattutto è comunicazione di emozioni. E se raggiungi qualcuno immagino che voglia sapere da dove proviene quel contenuto. Così elencavo tutti i libri da cui proveniva, usando le regole che Chuck Berry aveva fissato. E’ vera narrativa, è raccontare storie di una madre che spiega a suo figlio perché suo padre non torna a casa…

BRUCE: L’altro aspetto interessante è come metti su un disco, il modo in cui me l’hai descritto. Il tipo di lavoro che fai è scegliere un concetto e crearci su il disco. Io ho fatto dischi concettuali ma venivano fuori mentre li stavo facendo e se iniziavo da un concetto quasi sempre non funzionava. Era solo un processo o un titolo che davo a qualcosa per seguire dove stava andando effettivamente il disco. Come formulavi i tuoi dischi e come li collegavi al lavoro precedente?

STEVE: In quei giorni mi sono detto “fammi conoscere me stesso e allo stesso tempo fammi conoscere il mondo”, per capire come il governo interagisce con noi e come e chi sta controllando il nostro destino. Quindi ho iniziato con l'”individuo” nel primo album, poi con la “famiglia” nel secondo album, lo “Stato” nel terzo album, l’”economia” nel quarto album e la “religione” nel quinto. Ho esplorato questi argomenti, ho scelto il titolo dell’album e poi ho scritto i titoli delle canzoni, anche parlando di sotto temi, prima ancora di scrivere le canzoni…

BRUCE: Incredibile che tu possa scrivere così, io non sono mai stato in grado di scrivere così.

STEVE: Beh l’ultima volta con Letter to You hai fatto in questo modo…

BRUCE: Sì ma è stato un disco che mi è venuto fuori così, lo sai, l’ho scritto in una settimana e mezza o due settimane solo perché tutte le canzoni sono volate fuori…

STEVE: …ma sono tutte molto forti concettualmente. Mi piace l’idea di canzoni che aggiungono qualcosa in più di te ed è quello che ho sempre cercato di fare. Negli ultimi tre anni -2017, 18 e 19 – sono tornato per caso al programma televisivo, tu hai deciso di fare Broadway. Ho messo insieme una band e non guidavo una band da 30 anni… sembrava divertente. Non ero pronto a scrivere un album quindi ho ripreso solo canzoni scritte per altri e in Soulfire. E così sono finito in tour con Soulfire che era già un miracolo. E poi le canzoni hanno iniziato a venirmi, nuove idee in mente… e pensavo “farò davvero un nuovo album? Se lo faccio voglio che sia diverso… per la prima volta voglio che non sia autobiografico. Tutto il mio materiale era stato molto autobiografico. In realtà non ci sarebbe stato neanche bisogno di scrivere un libro, è tutto in quell’album Born Again Savage. Se leggi quelle parole tutta la mia storia è lì ma stavolta non volevo essere autobiografico e non volevo che fosse politico. Perché no se la politica è la mia identità? Era importante negli anni ’80 perché tutte le cose brutte stavano accadendo dietro le scene e nessuno sapeva cosa stesse succedendo davvero. E avevi da un lato questo Ronald Reagan cowboy spensierato che tutti amavano e dall’altro tutti i tipi di crimini che accadevano nel mondo. Ma saltando a quattro anni fa, non c’era niente da rivelare. Questo tipo [Trump] si vantava di mettere i bambini in gabbie per scoraggiare l’immigrazione e non avevo niente da aggiungere, cosa avrei potuto aggiungere? Così ho deciso che la politica a questo punto era solo ridondante e quindi avrei fatto qualcosa che non avevo mai fatto prima: avrei realizzato un album immaginario con dieci piccoli film, e volevo un protagonista diverso in ognuno. Mi sarei divertito un po’ proprio come tutti gli altri.

BRUCE: Sì, ancora una volta hai avuto una grande idea: Summer of Sorcery che hai scritto è uno dei tuoi migliori ed è incredibile aver preso una pausa così lunga dalla composizione e poi essere in grado di scrivere le canzoni che hai fatto nell’ultimo disco. Sono molto divertenti e c’è una grande connessione con l’identità iniziale.  I testi sono semplicemente fantastici ed è bellissimo poter tornare ad avere le tue canzoni.

STEVE: E’ stato divertente… quando sei dentro nel ciclo scrivere – tour- scrivere – tour- registrare, prendi costantemente appunti, butti giù piccole idee che registri, brevi pezzi di melodia… è così che l’ho sempre fatto. Scrivi piccole cose e quando sei pronto per fare un disco, hai tutte queste idee musicali, idee per temi, idee per i testi. Ma questa volta non c’è niente di tutto questo!  Stavolta ho iniziato da zero.

BRUCE: Penso che sarebbe interessante per i fans sapere in tutti questi anni come lavoriamo insieme – cosa che hanno avuto modo di vedere un po’ con Letter to You -, la tua posizione nella E Street Band e come lavori…

STEVE: E’ stato divertente ed è anche collegato a The Sopranos alla fine. Penso perché originariamente sono un boss nel mio mondo. All’inizio la gente era piuttosto sorpresa quando mi unii a te perché eravamo entrambi di successo localmente e avevamo le due band più popolari. A un certo punto anche se stavo bene e sarei diventato bravo come front man negli anni ’80, capii semplicemente che la mia inclinazione naturale non è mai stata quella del front man. Mi piace stare dietro le scene o a lato. Se dovessi descrivermi direi un produttore o uno scrittore produttore. La performance è parte della mia vita ed è la parte divertente.

Bruce Springsteen and Steven Van Zandt on stage – Born to Run tour. Photo / Getty Images

BRUCE: Anche se sei bravissimo, sei un grande frontman. Quando eravamo ragazzi, da The Source in poi hai sempre avuto un enorme talento e sei sempre stato in grado di fare il frontman. Ho sempre avuto una grande considerazione della tua posizione nella nostra band ed è davvero generosa perché l’inestimabile valore di Steve per me come band leader, nell’amicizia, negli arrangiamenti e nei processi di pensiero e nel modo in cui creiamo i nostri dischi è sempre enorme. E’ stata la mia fortuna. E ti voglio chiedere di come questo si rapporta alla tua recitazione e il ruolo che hai coperto nei Soprano.

STEVE: Sono stato un leader e un arrangiatore prima di essere uno scrittore o un produttore… mi piace arrangiare, semplicemente lo adoro… quindi è successo perché io e te saremmo stati in qualche modo complementari se ci fossimo uniti. Tu avevi certi talenti che pensavo fossero speciali e io pensavo di poterli completare con i miei arrangiamenti. Così abbiamo finito per lavorare insieme, ma prima di tutto eravamo amici e uguali.  Ho coperto quel ruolo che chiamano di “underboss” o consigliere, ma è solo una cosa che faresti con un amico, nulla di ufficiale. Riguardo quel ruolo, penso che, lo sai, che da sempre se do un consiglio c’è solo una ragione: è quella di provare ad aiutarti a realizzare la tua visione.  Non è per una sorta di ego o perché ho bisogno di mettere il mio timbro su una canzone, ma per il piacere di contribuire con te.

BRUCE: L’ho sempre saputo, è sempre stato così. E’ sempre stato il tuo approccio fino ad ora e l’ho sempre letto così.

STEVE: Voglio che tu sia il migliore possibile, la grandezza: questo è il nostro lavoro. La cerchiamo, la sosteniamo, la troviamo o proviamo a crearla, proviamo a realizzarla. E dopo un po’ di anni all’improvviso mi ritrovo a recitare, la storia è tutta nel libro, ma all’inizio non ero nel pilot originale e [il regista] mi aveva scelto come Tony Soprano.

BRUCE: Davvero fantastico!

STEVE: Fortunatamente la razionalità ha prevalso e l’HBO ha detto “ma sei fuori di testa? Questo non ha mai recitato prima e dobbiamo mettere 30 milioni di dollari in questa cosa?”. Quindi David [Case] mi disse “non mi permetteranno di sceglierti per il ruolo di Tony, quindi cosa vuoi fare?” e risposi “in realtà David, sai che apprezzo molto questa opportunità ma mi sento in colpa a prendere il lavoro di un attore. Mia moglie è una vera attrice e l’ho vista andare a scuola per anni a Broadway… so che questi attori stanno tutti facendo lezioni e mi sento in colpa a prendere un lavoro”. Disse “va bene, ti dirò una cosa: ti voglio in questo spettacolo e scriverò apposta per te una parte nuova”.

BRUCE: E’ favoloso non lo sapevo..

STEVE: Disse “Cosa ne pensi? Cosa ti piacerebbe fare?”. E io “non avevo mai pensato di recitare ma stavo pensando di scrivere e forse di dirigere un giorno. Così ho scritto una parte per un sicario indipendente di nome Silvio Dante che gestisce un club ma vive nel passato. E’ ambientato nel presente, ma vive in un certo senso nella sua mente, vive in modo più romantico il passato. E’ come un club di Copacabana con grandi band e ragazze che ballano… e in quel club le cinque famiglie hanno i loro tavoli, il commissario, la polizia, l’assessore e il sindaco… una specie di versione mafiosa di Casablanca”. E lui “va bene, fammici pensare”. E così torna un paio di giorni dopo dicendo “Non possiamo permettercelo ma ne faremo uno strip club e lo gestirai per la tua famiglia. Useremo la stanza sul retro come una specie di ufficio” e inizia così. Io scrivo una biografia del personaggio solo per me. Tony Soprano e Silvio sono i migliori amici, Silvio è il tipo che gli deve guardare un po’ le spalle ed è davvero l’unico personaggio nello spettacolo che non ha velleità di essere il boss. Poi detti la parte agli scrittori e a David. Presto io e Jimmy Gandolfini legammo davvero, penso perché eravamo entrambi attori caratteriali. Lui era davvero più un personaggio che un protagonista e io ero più un side man che una figura principale. E abbiamo legato su quel tipo di livello e penso che David lo abbia notato. Così alla fine della prima stagione, lentamente mi sono calato in quel ruolo dell’underboss e di consigliere di Tony Soprano. Conoscevo molto bene quel ruolo [ride], era come se sapessi esattamente come funziona e mi ha davvero aiutato come attore immagino a recitare per la prima volta.  Ero un po’ perso in alto mare e poi una volta capito è andata bene… e se ci pensi è diventato un ruolo importante nella famiglia, cosa che non era nel pilot. Voglio dire che David aveva molte aree coperte ma non c’era nessuno in quel ruolo…

Steven Van Zandt e James Gandolfini durante Hard Rock Cafe Presents “Little Steven’s Underground Garage” radio show all’ Hard Rock Cafe in NYC. Photo / Getty Images

BRUCE: Fantastico!

STEVE: E’ un ruolo importante in ogni famiglia mafiosa. Deve esserci un tipo così che sta alle spalle del capo. E poi è finita…in modo molto naturale…

BRUCE: Bello! Parliamo un po’ di come l’attivismo politico ti ha portato all’organizzazione TeachRock e come ci lavori.

STEVE: E’ il motivo per cui ho iniziato il programma radiofonico, la casa discografica e tutto il resto. Un giorno accendi la radio e ti chiedi “Cosa è successo? Cosa è successo a quel mondo meraviglioso in cui siamo cresciuti?” e ho iniziato a sentirmi un po’ in colpa. Ci siamo divertiti,  avevamo tutta quella musica fantastica e mi sento come se dovessimo preservarla in qualche modo per le generazioni future, perché c’è qualcosa di speciale nel rock and roll. Lo racconto molto dettagliatamente nel libro. Tutti i diversi generi hanno avuto il loro posto: la musica soul per le relazioni, il jazz un po’ più intellettuale e il rock and roll per la sua capacità di comunicare sostanza in qualche modo più di ogni altro genere. E ho pensato che questo deve essere conservato, come se fosse una specie in via di estinzione. Quindi devo fare il possibile e ho passato gli ultimi 20-25 anni a non fare nient’altro che cercare di salvare questa specie in via di estinzione chiamata Rock and Roll. Non per nostalgia ma perché è speciale. Siamo cresciuti in un periodo di “rinascimento” e non uso questo termine alla leggera. Quando la più grande arte mai prodotta è anche la più commerciale sei nel rinascimento. E all’improvviso i format in radio… niente di sbagliato nel rock classico (è fantastico) ma è ristretto, è un piccolo genere… ce n’è molto in questo momento. Mi riferisco al format oldies che risale agli anni ’80 e noi siamo tra questi, probabilmente siamo più vecchietti del rock classico. E mi sono detto “aspetta un minuto… cosa è successo negli anni ’50, ’60 e ’70? Quella musica se n’è andata per sempre? Questo non ha senso per me, dobbiamo in qualche modo preservarla. E il satellite è arrivato proprio in tempo e queste cose oggi vengono conservate per fortuna. Poi un giorno un mio amico è venuto da me e mi ha detto “gli insegnanti di musica americani vogliono parlarti”. Ok… e dicono “ascolta non c’è nessun bambino per la legge No Child Left Behind che è stato promosso perché i nostri punteggi in scienze e matematica sono pessimi. Sai che hanno intenzione di approvare questa legge che ha eliminato tutte le lezioni di arte in America? Stanno andando fuori di testa, vai a dare un’occhiata”. Vado giù a Washington DC e mi incontro con Teddy Kennedy – ero molto felice di aver avuto la possibilità di incontrarlo – e Mitchell McConnell… (come mi piace dire Teddy Kennedy purtroppo non è più con noi e purtroppo Mitch McConnell lo è ancora). Ma comunque è di buon umore quel giorno ed entrambi mi dicono “è una conseguenza che non avevamo valutato e non immaginavamo ci sarebbe stata”. Chiedo “Aggiusterete la legge?”. E loro… praticamente: “No, le cose non si aggiustano a Washington DC: una volta che facciamo un casino resta per sempre”. Quindi sono tornato dagli insegnanti e ho detto che mi dispiaceva di dover dare una brutta notizia e che non avrebbero messo gli strumenti in mano ai bambini per un bel po’, forse mai più. Ma ho un’idea: perché non facciamo un curriculum di storia della musica? In questo modo possiamo mantenere le arti in generale nel dna del sistema educativo e renderlo accessibile a tutti i bambini, non solo a quelli che fanno musica. Quindi è ancora meglio in un certo senso, possiamo inserirci. Il liceo era escluso per la questione dei test, e un giorno realizzeremo che i test non significano apprendimento, ma questa è un’altra storia. Ho detto che ce ne saremmo andati alle scuole medie o ovunque avremmo potuto inserirci nel curriculare e trasversalmente con la lezione di musica, lezione di inglese, il corso di storia degli studi sociali. Troveremo un modo per farlo perché voglio che il rock, il blues e la musica siano importanti per sempre nel sistema educativo a un livello davvero fondamentale. Voglio che i bambini all’asilo sappiano i nomi dei quattro Beatles e ho pensato che così facendo ci riusciremo. Pianterò i semi che faranno restare vivo il rock per generazioni e ci riusciremo. E inoltre c’era bisogno di una nuova metodologia. Non puoi dire semplicemente “imparalo adesso”, come hanno fatto con noi. I bambini hanno un device ora e guardano tutto ciò che vogliono. Devi dare loro un motivo per essere a scuola, lo sai bene. Vengono a scuola con tutti questi regali, ma se vieni con la tua fantasia, con la curiosità, vieni con l’istinto, vieni con l’emozione… la scuola ti schiaccia. Li reprime completamente e si mettono un sacco di fatti nella nostra testa che non sono utili. Quindi ho deciso che è più importante insegnare ai ragazzi come pensare che cosa pensare. Andiamo da loro e chiediamo chi è il loro artista preferito, tutti ne hanno uno. Ok, allora, tracciamo da dove viene… da cosa viene una signora di nome Aretha Franklin? Viene da Detroit e così parliamo di Detroit. Viene dalla chiesa evangelica, viene dalla lotta per i diritti civili, quindi si parla di diritti civili e loro sono completamente impegnati perché è il loro lavoro, è il loro mondo.  Sei tu che vai da loro, è un nuovo modo di insegnare e alla fine, spero, di essere in grado di farli restare, aiutando il tasso di abbandono che è andato fuori controllo e nessuno ne parla. Se a un bambino piace anche una sola lezione, verrà a scuola e vorrà essere in quella classe. Nel consiglio dei fondatori ci sono Bono, Martin Scorsese e abbiamo 40.000 insegnanti.

BRUCE: Quando siamo andati noi a scuola è stato deludente, i risultati erano abbastanza mediocri … per quanto fossimo bambini intelligenti ma loro non sapevano come attingere al nostro intelletto emotivo ed è stato un peccato. Abbiamo alcune domande dei fan… una di queste è: chi era il tuo insegnante preferito o la materia? La mia era letteratura inglese, c’era un tipo che aveva capito che avevo dell’immaginazione e che c’era una certa intelligenza e la indirizzò. Mr. Hussey, questo era il suo nome. Grazie

STEVE: Un po’ tutti hanno qualcuno che ha giocato quel ruolo nella propria vita, ma c’era in realtà una bibliotecaria e il suo nome mi è appena balenato in testa per la prima volta: Gordon, Gore o Gorsuch o qualcosa del genere… devo ritrovare il suo nome. In ogni caso era una bibliotecaria e un giorno mi disse: “Scommetto che ti piace questo ragazzo, Bob Dylan”. Non so che anno fosse ma le dissi “sì”. “Vorresti sapere da dove viene?” “Sì voglio sapere da dove viene. E mi dà “Howl” di Allen Ginsberg!

BRUCE: Incredibile

STEVE: Cazzo, ecco da dove viene! E’ stato un grande momento che ricordo. L’insegnante di musica mi permise di entrare e mettere un disco in classe, quel primo album degli Who… incredibile, ancora il mio album preferito. L’insegnante di musica sapeva di non essere al passo con i tempi. Oggi le cose stanno cambiando e non sappiamo come affrontarle.

BRUCE: [domanda di un fan] che tipo di chitarra suoni sul palco e che chitarra non porti mai on the road? Un grande tuo fan come musicista e come attore.

STEVE: Quando mi sono unito alla E Street con il primo tour, penso che sia stata una chitarra che mi hai dato tu.  Mi regalasti una vecchia Stratocaster e nel giro di un mese mi fu rubata on the road. Così mi dissi “sai cosa? mai tirare fuori una chitarra importante quando sono on the road. La chitarra che ho usato principalmente è una Stratocaster di qualche anno dopo, penso che sia un remake del 57. Ma sai uso diverse chitarre… dipende dalla canzone ma la Stratocaster è diventata la mia chitarra preferita.

BRUCE: Ok, vogliono sapere se è stato più difficile iniziare a scrivere il primo capitolo oppure capire quando finire il libro.

STEVE: Beh, 10 o 15 anni fa provai a scrivere il libro e mi ricordo che non riuscivo proprio a capire come poterlo concludere. Come chiudo questo capitolo della mia vita? E poi di punto in bianco il 2017-18 -19 diventa il triennio più produttivo della mia vita. Voglio dire, ho fatto uscire il boxset dei miei primi sei album, due nuovi album e mi sono ricollegato al lavoro della mia vita per la prima volta in 30 anni. E i manager – non avevo mai avuto veramente manager nella mia vita – mi hanno suggerito di scrivere il libro durante la quarantena. Effettivamente era un’opportunità, avevo il tempo. E mi hanno anche suggerito come finirlo, il che mi ha davvero aiutato perché conoscevo l’inizio e conoscevo dove arrivare. Alla fine ci siamo divertiti. Abbiamo chiuso con il Soulfire Tour. La mia vita artistica è iniziata praticamente con i Beatles e il primo album che ho comprato – o meglio, pensavamo fosse il primo album dei Beatles ma in realtà era il secondo – si intitolava Meet The Beatles. E così mi hanno detto “inizia con questo, inizia con i Beatles! Perché non finisci con lo stesso Paul McCartney che viene sul tuo palco?”. E’ stato fantastico. La prima volta il grande Paul venne sul palco con noi a Hide Park e già fu fantastico e ovviamente la fine fu esilarante, quando staccarono la spina. Poi Paul ci chiamò sul palco per una jam al Madison Square Garden, e poi ancora si è presentato al mio show con i Disciples of Soul. Beh è un po’ diverso, non siamo grandi… non lo siamo mai stati e non lo saremo…venne solo per amicizia ed ero così felice di vederlo. Per noi è un miracolo vivente quell’approvazione, null’altro conta.

BRUCE: E’ stato importante crescere nel modo in cui siamo cresciuti, con quella musica che significava così tanto per noi e che ci ha insegnato così tanto, come dicevi tu, il mestiere di scrivere. Abbiamo imparato tantissimo da quei dischi dei Beatles, nota per nota, e poi andavamo a suonarli il venerdì e il sabato sera… Una delle cose di cui dobbiamo parlare è il titolo del libro “Infatuazioni non corrisposte” perché è un tema importante che viene fuori continuamente. Perché non ci spieghi qualcosa a proposito?

STEVE: Beh ero alla ricerca di temi più universali, all’inizio come ragazzo del Jersey che in qualche modo ce la fa nel rock and roll e questo è già un miracolo. Ma poi quando ho lasciato la E Street Band è iniziata tutta un’altra avventura. Ed è stata davvero la fine di una vita e l’inizio di un’altra in cui cominciano ad emergere temi più grandi, come la ricerca per identità, la ricerca di uno scopo, la ricerca spirituale, l’illuminazione e tutto il resto. Ma mentre attraversi la vita e conosci artisti, subentra un dilemma, una sfida che è quella di trovare un pubblico per il nostro lavoro. I miei grandi successi, per i quali sono molto grato alla vita, erano tuttavia generalmente per visioni di altre persone, mentre per il mio lavoro personale non ho mai davvero trovato un pubblico. Immagino che tutti provino un po’ di frustrazione nelle loro vite e un po’ di delusione e le cose che ami di più certe volte non ti ripagano con lo stesso amore. Questo capita ma l’importante è come reagisci a questo. E qui il libro inizia ad avere un po’ di utilità.

BRUCE: Qualunque cosa tu abbia fatto, la tua vita è completamente esplosa con tutto il lavoro che hai fatto lasciando la E Street Band…

STEVE: Ho commesso un suicidio artistico ma bisogna morire per poter rinascere. Mi ricordo il volo giù in Sudafrica… sentivo di aver bruciato la mia vita. Non mi è mai piaciuto volare ma improvvisamente tutta la paura lasciò il mio corpo. Mi resi conto che, sì, avevo fatto saltare tutta quella parte della mia vita, ma mi sarei impegnato in qualunque cosa stesse arrivando. Per questo mi concentrai tanto sulla politica, sulla questione del Sudafrica. Era davvero oltre il mio livello di celebrità e ci sono riuscito grazie alle celebrità mie amiche [tra cui Springsteen, U2, Bob Dylan, Pete Townshend, Joey Ramone, Tom Petty, Afrika Bambaataa e Run DMC, collaborarono al brano “Sun City“] e ci sono entrato con entusiasmo in quei problemi. Grazie a voi ragazzi ce l’ho fatta davvero.

Poteva essere una canzone del mio terzo album, Mandela sarebbe ancora in prigione e non sarebbe successo nulla… quindi all’improvviso io ero completamente concentrato e ossessionato da qualunque cosa stessi facendo. Ti avevo lasciato e avevo lavorato per 15 anni per qualcosa che se n’era andato. Ecco perché dico che non è tanto la delusione o la frustrazione o anche le decisioni sbagliate o qualsiasi altra cosa ma è quello che poi ci fai con questi sentimenti. E in qualche modo ho trovato la strada per continuare ad andare avanti. E il libro non è solo un riassunto di una bella vita. Secondo me il libro mostra la forza della volontà e lo spirito che ci vuole per creare un’identità e sviluppare quell’identità fino a un livello dello spirito fondamentale di auto-creazione.

BRUCE: E’ una cosa essenziale e porta alla pienezza della vita. Non importa quante persone stiano cercando di arrivare nel posto dove sei tu, quanto lavoro hai lasciato dietro di te… e un libro importantissimo per le persone. Oggi sei qualcosa solo quando la gente ti vede. Questo è il messaggio culturale dell’intera società: devi avere visibilità, devi avere i tuoi cinque minuti su tick tock o su internet mentre in realtà l’importanza sta nel creare una vita e le ricompense di quella vita anche se non tutti ti stanno a guardare tutto il tempo. Penso che il libro sia una grande lettera d’amore di quell’esperienza e di quello che hai fatto con la tua vita. Per me la tua vita è stata uno straordinario successo e il libro ne è una testimonianza. Dovrebbe essere letto da tutti, non solo dai fan della E Street Band o di Little Steven, ma da tutti gli amanti del rock and roll. Adorerete il libro di Steve perché è il cuore della musica rock di cui ci siamo innamorati quando eravamo ragazzi e che voi avete colto davvero splendidamente. E’ una cosa meravigliosa, è una cosa molto amorevole sia aver creato quello che hai creato dalla tua vita sia il messaggio e lo spirito del tuo libro. Quindi ha davvero un grande significato per me leggerlo come tuo migliore amico. Il libro significa molto per me e sono davvero orgoglioso e felice della sua esistenza, per te e ovviamente per la nostra amicizia in tutti questi anni. Non posso fare altro che ringraziarti e cercare di stare al passo con te. Il tuo libro è stato fantastico. Come uomo, io spero di essere buono almeno la metà del tuo libro. Grazie è fantastico e buona fortuna.

 

Commenta questo articolo