Il primo maggio con le canzoni di Springsteen

«Bruce Springsteen non ha mai lavorato né all’autolavaggi, né in fabbrica, ma ha visto gli occhi di amici e familiari che ci lavoravano. Forse è proprio questa combinazione di familiarità e distanza che gli permette di raccontare le vite degli altri con un realismo che è indicibile per chi ci è intrappolato dentro» (Alessandro Portelli). E che ci sia riuscito è talmente vero che oggi, probabilmente per la prima volta nella storia del rock, una star planetaria viene considerata a ragione un working class hero. Non si tratta del riflesso di una condizione sociale, dalla quale grazie alla sua professione di musicista si è emancipato,  ma di un approccio, narrativo e politico, reso possibile dalla vicinanza sociale e biografica con il mondo operaio che Bruce ha deliberatamente scelto negli anni di non dimenticare.

Tra la moltitudine dei suoi brani dedicati a chi lavora, a chi ha perso il lavoro, a chi si trova a fare scelte sofferte per trovare un lavoro,  a chi il lavoro ha divorato la vita, abbiamo selezionato alcuni tra i suoi brani che in tal senso ci sembrano più significativi e con i quali vi auguriamo un buon primo maggio.

Night [album “Born To Run” 1975]

Il brano  va ricordato perché è il primo in cui Bruce parla di lavoro “dalle 9 alle 5”, riassumendo in un solo verso molti dei temi che saranno presenti nell’album successivo: “Lavorate tutto il giorno e in qualche modo cercate di sopravvivere fino a sera”. Il brano potrebbe essere letto come prequel della canzone “Born to Run”, un ritratto del protagonista prima che Wendy entri in scena. Il Boss approfondirà il significato del duro lavoro con “Darkness on the Edge of Town”, ma qui comincia ad emergerne l’idea  del lavoro come fattore motivante, qualcosa con cui dobbiamo necessariamente fare i conti per raggiungere un fine.

Badlands [album “Darkness on the Edge of Town”1978]

Perché andare a lavorare ogni giorno per un pochi soldi? È la ricerca di sostentamento, di onore o uno strumento di emancipazione sociale? Questo è l’interrogativo di “Badlands”, in cui  il protagonista parla di duro lavoro come quello “nei campi fino ad avere la schiena bruciata” o “sotto le ruote fino ad avere le idee chiare” ma anche di fede e d’amore come strumenti necessari per sollevarti al di sopra della lotta quotidiana.  “Steven Van Zandt in un’intervista a Rolling Stones nel 2013 disse: “E’ un brano potente, meravigliosamente positivo […] in quella sua specie di atmosfera negativa c’è un eroismo guerriero, perché sai che le cose non andranno meglio. La vita è difficile e resterà difficile. E sai, farai meglio ad adattarti a tutto questo in fretta, perché i bei tempi che hai visto nei film forse non torneranno, sempre che siano mai esistiti. La vita è destinata ad essere una battaglia quotidiana e il brano contiene questa consapevolezza”.

 Factory [album “Darkness on the Edge of Town”1978]

E’ un brano autobiografico, dedicato a suo padre che andava a lavorare in fabbrica ogni mattina e che, di conseguenza, per quel lavoro subì la perdita dell’udito. E’ un salto nella realtà quotidiana.  ”Ci sono due tipi di persone- raccontava Springsteen dal palco nel 1980- quelle che hanno la possibilità di vivere il tipo di vita che vogliono e che hanno l’occasione di cambiare il mondo in cui vivono. E quelle che devono fare in modo ogni giorno che il mondo in cui vivono non vada in frantumi. Quando avevo 16 anni non potevo capire che ciò che faceva mio padre – standosene sdraiato sul pavimento freddo alle 6 del mattino per cercare di far partire un’auto malridotta in modo da poter andare a lavoro- era per me”. “Attraverso castelli di paura, attraverso castelli di dolore, vedo mio padre che entra di nuovo nei cancelli della fabbrica… la vita, la vita, la vita di chi lavora ,”the working life”. “Factory”- osserva Portelli- mette insieme in tre strofe essenziali, tre idee durissime. Primo: la fabbrica ti distrugge per darti da vivere. Secondo: il tempo della fabbrica è sempre uguale a se stesso, ciclico – suona la sirena, l’uomo si alza la mattina, prende il portapranzo, va in fabbrica; la sera suona la sirena, torna a casa, e la mattina dopola sirena suonerà ancora e tutto ricomincia. Terzo: il mito americano della mobilità sociale non ha niente a che vedere con queste vite sempre uguali – e con queste generazioni condannate a ripeterle, perché “qui nella valle ti insegnano a rifare quello che ha fatto tuo padre” come dirà poi in The River.

The River [album The River 1980]

Un buon lavoro può essere la base per una vita felice. Quando non c’è lavoro, una vita, un sogno e una famiglia possono andare distrutti. L’ingresso nell’età adulta è caratterizzato forzatamente da una gravidanza inattesa e da una “tessera sindacale e un abito nuziale “. La “union card”, come nota Alessandro Portelli, non è una bandiera, è un modo di vita per chi viene da “giù nella valle”. Lui trova lavoro, ma poi tutto cambia: “di recente non c’è tanto lavoro a causa dell’economia”: la gente che lavora è incardinata nell’economia. Se l’economia fosse stata migliore e ci fosse stato più lavoro, forse l’amore della giovane coppia non sarebbe stato così messo a dura prova. Il protagonista e la sua giovane moglie scendono al fiume alla fine della canzone per affrontare il loro destino. Non c’è niente di ideologico nel modo in cui Bruce Springsteen, fin dal principio, tratta il lavoro. Si limita a parlare di come vivono la sua gente, la sua famiglia, i suoi coetanei.

My Hometown [Born in the USA 1984]

Il lavoro fa parte del tessuto della vita della città e, se non c’è lavoro, la città inizia a sgretolarsi. In “My Hometown” il paesaggio è quello di una città dove le fabbriche sono chiuse ed è arrivata la violenza razziale. Il protagonista è un padre di famiglia che rischia di perdere il lavoro e pensa di emigrare e cercare fortuna altrove per tirare avanti. Intanto porta in giro il figlioletto in auto, lo fa sedere sulle sua ginocchia davanti al volante e gli dice di guardarsi bene attorno perché “this is your hometown”.

 Youngstown [The Ghost of Tom Joad 1995]

“Una notte sono sceso in salone e ho preso un libro intitolato “Journey To Nowhere”, scritto da Dale Maharidge e illustrato dalle foto di Michael Williamson. Insieme hanno attraversato tutto il paese a metà degli Anni ’80 saltando dentro ai vagoni dei treni fino in California e poi su fino all’Oregon, facendo un resoconto di quello che vedevano e di quello che stava succedendo in quel periodo […]. Io sentivo da tanta gente che lavorava nelle varie banche del cibo che c’era sempre più gente che si trovava in difficoltà e che si rivolgeva a questi servizi molto più di prima. Gente che prima non ne aveva mai avuto bisogno, gente che prima aveva un buon lavoro, che manteneva le proprie famiglie. Ho pensato a me stesso e mi sono detto ‘io sono uno che conosce una sola cosa, che sa fare una cosa sola, e cosa mi succederebbe se mi buttassero via come un giornale vecchio. Cosa direi ai miei figli se un giorno tornassero a casa e io non potessi più dargli da mangiare o se si ammalassero e io non potessi aiutarli o metterli al sicuro, oppure non poterli più curare. Io non lo so, davvero. Ma colpisce l’essenza di te stesso”.

La storia narrata in questa canzone – che troverete dettagliatamente analizzata in un bellissimo articolo di Patrizia De Rossi– è la storia della città di Youngstown, in cui le miniere di ferro e le acciaierie fondate a partire dagli inizi dell’800 avevano sempre rappresentato la prima forma di sostentamento di quella comunità. C’è un operaio di quella stessa fabbrica (o meglio una generazione di operai) cui si fa narrare la storia e ci sono tutte le guerre sullo sfondo per le quali la fabbrica costruiva le armi, salvo poi chiudere e mandare sul lastrico migliaia di famiglie. Ora la fabbrica è nient’altro che un cumulo di macerie, ora che “quei due pezzi grossi hanno fatto quello che nemmeno Hitler era riuscito a fare”, chi aveva vissuto grazie alla fabbrica, a costo di affrontare quotidianamente un lavoro infernale, si ritrova senza lavoro a chiedersi a cosa sia servito costruire tante armi e mandare  nostri figli a morire in Corea o in Vietnam se adesso tutto è andato perduto. “Il mondo è cambiato” è la risposta, ma il mondo si è arricchito con il sudore di quegli stessi operai  di cui quel mondo si è dimenticato persino i nomi.  Una storia amara che dunque “parla degli uomini e delle donne che vivevano in questa città e che hanno costruito questo paese. Parla della gente che ha dato i suoi figli alle guerre che sono state combattute e che poi sono stati dichiarati sacrificabili” .

 John Henry (album “We Shall Overcome: The Seeger Sessions” 2006)

Bruce Springsteen nel 2016 con la magnifica Seeger Session band ripesca il mito di John Henry, morto in modo leggendario per dimostrare l’insostituibile funzione del lavoro dell’uomo. La storia della canzone popolare racconta uno degli sforzi più titanici che decine di migliaia di detenuti ai lavori forzati – pressoché tutte le minoranze, tra cui moltissimi neri – furono costretti ad affrontare per la realizzazione della ferrovia che avrebbe collegato, dopo la guerra di Secessione, la California al resto del paese. Erano i muscoli degli uomini a spianare la strada al progresso su rotaia: armati di mazze e martelli, i lavoratori scavavano nicchie nella roccia di granito dove inserire cariche d’esplosivo. John Henry  era un giovane caposquadra che guidava i gruppi di scavatori di tunnel. Protestò quando apparve la trivella a vapore che prometteva di scavare la roccia più velocemente e con minore dispendio d’energie: quella macchina avrebbe tolto il lavoro agli operai e in ogni caso non sarebbe stata in grado di battere il lavoro manuale. Fu così che lanciò una sfida alla macchina: lui avrebbe battuto in velocità e manualmente il lavoro di scavo nella roccia della trivella. Martellata su martellata, Henry vinse la sfida, una sfida lanciata per sé e per i suoi compagni operai, ma poi, stremato dalla fatica e dallo stress, fu stroncato da un infarto.

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