Libro: Bruce Springsteen “The Promised Man”

Dedicato ai jihadisti di Bruce, che troveranno motivi per ricredersi, e a quanti lo schifano, che troveranno motivi per credere.

Bruce Springsteen. The Promised Man Director’s Cut #15 (luglio 2019) • 196 pagine b/n • 20,00 euro

Autore: Stefano I. Bianchi

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[di seguito un estratto dal
Capitolo iniziale. Teoria.
Il sublime, il verosimile e la merda [a.k.a. l’Anticristo]

[…] Esatto opposto del folkster pauperistico purista penitenziale, Springsteen è un musicista di popolo popolare e populista che incarna – in senso letterale: un Cristo – la purezza del Sogno Americano e della Religione Americana più antica, altezza Padri Pellegrini e Dichiarazione d’Indipendenza. A tutti è dato il diritto, l’opportunità, di migliorare la propria vita e raggiungere il benessere economico attraverso la capacità personale, il duro lavoro, la determinazione, il coraggio. Un mix di esasperato individualismo, mistica della frontiera ed etica della democrazia a cui lui, da buon italo-irlandese educato dalle suore, ha aggiunto consistenti dosi di cattolicesimo coi suoi crediti di fratellanza, compassione e familismo volentieri amorale. Questo ha sempre cantato nelle sue canzoni – in giovinezza più spesso la prima metà, col passare degli anni quasi sempre la seconda. Siamo distanti dal folkster agit-prop alla Woody Guthrie o Pete Seeger, che pure lui ha più volte e in più maniere omaggiato, giustamente e per rispetto, e alla cui genia certa pubblicistica, soprattutto italiana, tenderebbe ad accodarlo erroneamente e per difetto (della pubblicistica). Le sue parole forti e veementi, in qualche occasione decisamente molto forti e veementi, non sono mai state una critica e men che meno un tradimento dell’american dream ma la denuncia del tradimento dell’american dream, quindi la più solida riconferma della sua giustezza. Non sfuggirà la differenza.
Sin dai suoi primi album Springsteen ha raccontato le vite della working class, particolarmente le famiglie dei cosiddetti blue collar, dai colletti blu delle tute da operaio. Nessuno prima di lui ha saputo dare voce, cuore e anima con altrettanto epico realismo alle gioie, ai sogni, ai drammi e alle tragedie dei mille volti afoni e anonimi dei ragazzi che crescono per le strade delle periferie urbane e delle cittadine di provincia, e delle vite annichilite e abbrutite dei loro padri e delle loro madri che del sogno americano hanno assorbito solo l’enfasi pubblicitaria. Poi, dopo il bagno purificatore di “Nebraska”, l’occhio della sua cinepresa è passato a un livello più ampio, ha perso la visione singolare delle vite quotidiane per farsi universo mondo abbracciando un’estetica generale e generalista, popolare e populista. Infine, con gli anni Novanta, il rocker di un tempo ha cercato il riscatto dichiarandosi folkster, quasi che la definizione rappresenti un upgrade della dignità artistica.
Dovendosi adattare al ruolo di profeta, a quel punto il suo registro intellettuale cambia e l’uomo inizia a viaggiare in un doppio binario calcolato con oculata schizofrenia. Accanto all’acquisizione di una letterarietà sempre più raffinata (da “The Ghost of Tom Joad” a “Devils & Dust” e “Western Stars”), in molte canzoni, soprattutto quelle di più ampia portata popolare (è per questo che va sottolineato), Springsteen inizia a cantare i proverbi. Cose come “Aiutati che il ciel t’aiuta”“Chi va con lo zoppo impara a zoppicare” e “Donne e buoi dei paesi tuoi”, i tre pilastri attorno a cui in effetti ruota tutta la sua filosofia. E lo fa con una retorica, un’enfasi, una schiettezza, un’onestà e una tanto religiosa convinzione che è impossibile resistergli. Se le canta Springsteen, certe parole diventano di volta in volta inni alla speranza, esaltazioni della forza d’animo individuale, veementi testimonianze dell’eroismo dell’ordinary man, toccanti celebrazioni della fratellanza o magari sommessi atti di contrizione, paternalistici ammonimenti, moralistici rimbrotti e coraggiose e caritatevoli assunzioni dei panni altrui. Bisogna essere assolutamente geniali per trasformare il nulla in missione autentica: bisogna crederci. Certo, la storia della musica pop e rock è colma di testi che non significano niente (la stragrande maggioranza è spazzatura d’uso) e che per traslazione, trasfigurazione, amore, ignoranza, dabbenaggine, abilità o altro vengono interpretati da chi li assorbe come simbolismi arcani, profezie visionarie o messaggi filosofici. Ma mai come in Springsteen certe banalità, certe frasi fatte da diario liceale, certe grossolane citazioni di saggezza popolare made in USA sono diventate innodici, epici, straripanti, accorati, melodrammatici inni al più positivo vitalismo e alla più solida vitalità dell’american dream; o magari profezie millenaristiche sui destini dell’umanità, che sono allo stesso tempo anche sommari autodafé nei confronti di quell’umanissima remissività, incertezza e debolezza umana, di quelle complicanze e complessità della vita, del pensiero e della realtà che lo stesso Springsteen altrove sa dipingere così bene. Ecco: la sua mitopoiesi sta nell’elastica distanza che riesce magicamente a mantenere tra il sublime, il verosimile e la merda. […]

Stefano Isidoro Bianchi (Cortona, 1961) è direttore della rivista Blow Up. Ha pubblicato Post Rock e oltre: introduzione alle musiche del nuovo millennio (con Eddy Cilìa, Giunti 1999), Prewar Folk: The Old, Weird America (1900-1940) (Tuttle Edizioni 2007), Suicide. Il blues di New York City (Tuttle Edizioni 2016) e The Red Crayola. La tempesta perfetta (Tuttle Edizioni 2018) e ha curato Rock e altre contaminazioni (Tuttle Edizioni 2003) e The Desert Island Records (Tuttle Edizioni 2009). Nel 2004 ha partecipato al convegno internazionale “Nuovo e Utile”, i cui atti sono stati pubblicati nel volume La creatività a più voci, a cura di Annamaria Testa (Laterza, 2005).

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