Bruce Springsteen in una straordinaria intervista: ottimismo, democrazia e speranza per il futuro

Traduzione dell’articolo “Bruce Springsteen’s Playlist for the Trump Era
di David Brooks per “The Atlantic”:

Sono giorni di tumulti, rabbia, speranza e cambiamento sociale. In momenti come questi, i cantautori e i musicisti hanno il potere di dare un nome alle cose e aiutarci a dare un senso agli eventi – artisti come Kendrick Lamar, Janelle Monáe, Tom Morello, Nina Simone, Marvin Gaye, Bob Dylan e Bruce Springsteen. Sono passati 20 anni da quando Springsteen ha scritto “American Skin (41 Shots)”, una canzone potente sull’omicidio  di un uomo di colore per mano della polizia. Ho pensato che sarebbe stata una buona idea intervistare Bruce, per conoscere le sue riflessioni e sulla musica in questo momento. Ecco una trascrizione leggermente modificata della nostra conversazione, che si è svolta il 9 giugno.

David Brooks: Ci sono persone che marciano per le strade. Ci sono grandi tumulti. Cosa vedi? Sei ottimista o pessimista riguardo a quello che sta succedendo là fuori?

Bruce Springsteen: Credo che nessuno sappia veramente dove stiamo andando. Dipende da troppe incognite. Non sappiamo dove ci porterà il COVID.  In questo momento non sappiamo dove il Black Lives Matter ci porterà e se riusciremo ad avere un vero confronto sulla questione razziale e la polizia e, in definitiva, sulla disuguaglianza economica che è stata una macchia nel nostro contratto sociale.

E, naturalmente, nessuno sa dove ci porteranno le prossime elezioni. Credo che il nostro attuale presidente sia una minaccia per la nostra democrazia. Semplicemente rende qualsiasi tipo di riforma molto più difficile. Non so se la nostra democrazia potrebbe reggere altri quattro anni della sua carica. Queste sono tutte minacce esistenziali per la nostra democrazia e per il nostro stile di vita americano. Se consideri tutto questo, potresti essere pessimista, ma ci sono aspetti positivi in ognuna di queste circostanze. Penso che abbiamo la speranza di un vaccino. Penso che ogni volta che uno striscione “Black Lives Matter” di 15 metri viene portato verso la Casa Bianca, sia un buon segno. E alle manifestazioni hanno partecipato persone con la pelle nera e con la pelle bianca infuriate riunite nel nome dell’amore. Questo è un buon segno. Inoltre, i numeri del nostro presidente sembrano precipitare sotto terra. Questo è un buon segno. Credo che potremmo aver finalmente raggiunto un punto di non ritorno della presidenza con quella passeggiata a Lafayette Square, così scandalosamente anti-americana, una assoluta pagliacciata così stupida e così dichiaratamente anti-libertà di parola. E ne abbiamo un video che lo testimonierà per sempre.

Mi sento ottimista per le prossime elezioni. Tutti questi ragazzi per strada e il fatto che queste manifestazioni stiano accadendo in tutto il mondo mi fanno ben sperare. Penso che sia un movimento che alla fine non riguarderà solo la violenza della polizia su George Floyd, che possa riposare in pace.

Brooks: Parliamo di alcuni dei grandi argomenti. Questi eventi sono stati l’ennesima manifestazione dell’ingiustizia razziale, della divisione razziale e della disuguaglianza razziale. Canti di questi temi da molto tempo. Ricordo che nella tua canzone “My Hometown” hai parlato della tensione razziale al liceo in cui sei cresciuto. Come pensi che stiamo andando nel complesso? Pensi che stiamo facendo progressi?

Springsteen: Se guardi alcuni dei terribili eventi delle ultime settimane e i casi registrati di oppressione e violenza della polizia, diresti che stiamo andando molto male e si potrebbe essere molto pessimisti. D’altra parte, c’è stata una cosa che mi ha fatto riflettere. Quando ho visto il presidente marciare verso St. John’s e posare con la sua Bibbia e il suo falso contingente tutto bianco, non sembrava reale. Perché di fatto non è reale. Quella non è l’America di oggi. Quella cultura, che rende invisibili i neri, è sparita. Oggi, se i neri non sono visibili non è accettabile. E penso che sia un segno di progresso. Quando guardi il lato democratico della Camera pieno di gente nera e di colore, gente eterosessuale e gente gay, e poi guardi i repubblicani, che in questo momento sembrano astorici e fuori dal tempo, non ti sembrano ridicoli? E nonostante il loro potere attuale, sembrano un partito in decadenza.

Se consideri la storia, come quella di mezzo secolo fa, quando avevo 20 anni o nel 1968, quando avevo 18 anni, diresti che ci sono stati grandi miglioramenti: il movimento per i diritti civili, il Voting Rights Act, la presidenza Obama. Certo, c’è un costante rifiuto di qualsiasi forma di progresso da parte degli elementi reazionari. Ma sento che ora è minore rispetto al passato, e sta calando. Ci sono persone che si vedono lasciate indietro dai cambiamenti della storia e hanno paura di perdere il loro status, e forze all’interno del Partito Repubblicano e nella società interessate a che la bilancia del potere penda  sempre da un solo lato… ma questo sarà semplicemente impossibile. Quindi direi che ci sono stati molti miglioramenti, ma ovviamente abbiamo ancora molta strada da fare. C’è la classica citazione di Martin Luther King: “L’arco dell’universo morale è lungo, ma tende alla giustizia”. Lo credo ancora, ma fa molte deviazioni lungo la strada e tutto sembra troppo lento per i nostri tempi attuali. Finalmente però stiamo discutendo a livello nazionale del comportamento della polizia. Sarà doloroso, ma penso che avrà effetti positivi. Nell’era dei video, la cattiva condotta della polizia – violenza non provocata, omicidi – non può essere ignorata o nascosta. Il presidente può fingere che non stia succedendo nulla e che George Floyd sorrida dal cielo a causa dei Jobs Reports di questa settimana. Ma ogni americano, e credo in tutto il mondo, è in grado di vedere in questo momento che lo stato delle cose non va bene. E questo è progresso. Ho la sensazione che ora le cose vadano meglio e stiano andando nella giusta direzione, nonostante o a causa del nostro attuale  momento di caos.

Brooks: Qui non parleremo soltanto; ascolteremo anche un po’ di musica. E queste sono le canzoni che hai selezionato per il momento e forse per far comprendere più profondamente ciò che sta succedendo. La prima canzone che hai selezionato è “Strange Fruit” di Billie Holiday.

Springsteen: E’ stata scritta da Abel Meeropol nel 1937. Immagina quindi di scrivere “Strange Fruit”, una canzone sui linciaggi nel Sud, e di far cantare un cantante popolare come Billie Holiday nel 1939. È stata una registrazione molto controversa. La sua etichetta, la Columbia, non voleva pubblicarla. Ed è stata rilasciata con un’altra etichetta. È semplicemente un pezzo epico di musica molto più avanti dei suoi tempi. Colpisce ancora un nervo profondo, profondo, profondo dei tempi attuali. [La playlist è disponibile su Spotify, ma i seguenti link sono presi da YouTube]

Brooks: Parliamo dell’America e del significato dell’America. Una volta ti ho sentito dire in un’intervista che Woody Guthrie ha scritto “This Land Is Your Land” in risposta a “God Bless America” di Irving Berlin. Questo è un esempio di come i cantautori abbiano sempre affrontato questi temi sul significato dell’America. E adesso siamo in una specie di crisi. Abbiamo una storia nazionale americana che non include tutti. Quindi, cosa pensi del significato dell’America, della storia americana?

Springsteen: Quando ho iniziato, mi sono consapevolmente mostrato come un artista americano e un americano medio. Pensavo di avere un talento che mi permetteva di creare un linguaggio con cui parlare delle cose che mi riguardavano e che pensavo fossero fonte di preoccupazione per il luogo in cui vivevo, per i miei vicini e le persone con le quali ero cresciuto. Non so se lo definirei un “punto di vista politico”, ma quanto meno avevo “un punto di vista” quando ero molto giovane e ho sempre guardato alla musica popolare come a un passo verso una maggiore libertà. La grande musica porta una maggiore libertà… Non credo che ci sarà mai una musica che racconterà di nuovo l’intera storia, l’intera storia americana. La cultura è troppo frammentata in questo momento. Ma credo che sia dovere dell’artista procedere come se questo non fosse vero, procedere come se fosse possibile avere un momento monoculturale e scrivere e registrare qualcosa che è profondamente significativo ed eccitante, in grado di raggiungere l’intera nazione e cambiare la cultura. Devi andare avanti con quell’impulso, ma penso che da qui in poi, la scena musicale americana sarà una cacofonia di rap, pop e musica latina e così via, e probabilmente ci sarà anche spazio per un uomo anziano e un po’ di musica rock. Nel mio programma radiofonico su SiriusXM, provo a includere tutte quelle voci diverse. È l’unico modo per raccontare la storia americana ed è ciò che mi impegno a fare.

Brooks: Una delle canzoni che hai selezionato è la versione di Paul Robeson di “The House I Live In”. Era una canzone originariamente scritta per combattere l’antisemitismo e Robeson lo raccontò in un modo nuovo.

Springsteen: La versione di Robeson è molto bella. Era un ragazzo interessante. Fu inserito nella lista nera durante l’era McCarthy. Era un antifascista e prese parte al primo movimento per i diritti civili, sostenne i lealisti durante la guerra civile spagnola e fu anche attore teatrale e cinematografico. Era un incredibile baritono che faceva tremare la stanza. E questa, ancora una volta, è una canzone scritta da Abel Meeropol. Non so esattamente chi fosse, ma era il Bob Dylan del suo tempo. Stava scrivendo musica incredibile. Ed è davvero un brano musicale bello e potente.

Brooks: Parliamo di cambiamento sociale. In ogni secolo, sembriamo avere momenti di cambiamento convulso. Abbiamo avuto un momento simile nel 1968, quando, come hai detto, avevi 18 anni. E molte persone pensano che questo sia un altro di quei momenti. Come ti sembra rispetto al 1968?

Springsteen: Sì, ci sono analogie. Le ho sicuramente percepite alcune settimane fa quando il razzo SpaceX si alzava verso il cielo mentre le città stavano bruciando. Ho avuto un flashback del 1968. Ma penso, come ha affermato recentemente il presidente Barack Obama nel suo discorso, che ci siano grandi differenze. C’è stata una rabbia sfrenata nel 1968 che oggi non c’è nella stessa misura. Il livello di violenza, per quanto grave la scorsa settimana, era notevolmente inferiore a quello del ’68. E i manifestanti sono più giovani. Sono molto diversi. I bianchi e i neri non si battevano insieme a Newark o ad Asbury Park nel 1968. Questo non accadeva. Lo sdegno e la sensazione di “quel che è troppo è troppo” è simile. Ma tutto sommato, penso che siano diverse proteste per tempi diversi. Nel ’68 abbiamo avuto omicidi, guerre in Vietnam, Laos, Cambogia. Abbiamo avuto la strategia sudista per contrastare l’ascesa del movimento per i diritti civili, che ha portato a Nixon e all’impeachment, quello che sarebbe dovuto accadere ora se non fosse stato per la vigliaccheria del Partito Repubblicano.

Brooks: Andiamo al tuo prossimo brano. È “Made in America”, di Jay-Z e Kanye West. E’ tratto dall’album Watch the Throne.

Springsteen: Sì, adoro questa canzone. È così piena di sentimento e bella.

Brooks: Hai scritto dozzine di canzoni che ritengo, se ti senti a tuo agio con la definizione, potrebbero essere chiamate ”di protesta”. Parlano di mali sociali, di torti come “The Ghost of Tom Joad” e tante altre… Probabilmente la tua canzone più premonitrice è “American Skin”, che la maggior parte delle persone conosce come “41 Shots”. E la cosa interessante di quella canzone è che ha un messaggio politico in risposta all’uccisione da parte della polizia di un giovane ragazzo afroamericano. Ma ha anche differenti punti di vista. Hai una madre nera che parla a suo figlio di come stare al sicuro. Hai anche il punto di vista del poliziotto. Quindi, come si fa a mantenere l’equilibrio nell’arte, ma anche a renderla una chiara dichiarazione politica?

Springsteen: Non ho mai visto la mia musica come canzoni di protesta. Ho sempre cercato di raccontare di personaggi che avevano implicazioni sociali, perché credo che si debbano creare personaggi complessi in cui respiri la vita creativa e reale. Ed è così che trovi la verità. “American Skin” è nata mentre ero in viaggio per Atlanta e New York. Erano gli ultimi due spettacoli del tour e volevo scrivere qualcosa di nuovo. La abbiamo suonata ad Atlanta, che è stato un ottimo posto per debuttare. Ma quando arrivammo a New York e prima ancora di averla suonata, esplose la stampa. È stato tremendamente controverso con alcuni sindacati di polizia. E tieni presente che era una canzone che nessuno aveva ancora sentito, e si creò comunque un bel trambusto. Molte persone che si sono fatte idee forti su quella canzone semplicemente non l’hanno mai ascoltata. E se l’hanno sentita, non l’hanno davvero ascoltata, perché è una immagine abbastanza equilibrata di quell’incidente, l’uccisione di Amadou Diallo. È una delle canzoni di cui sono più orgoglioso. La famiglia di Diallo venne e vide il suo tributo al Madison Square Garden. Ci furono delle risse quando la suonammo. Mi fu mostrato il simbolo della Polizia di Stato del New Jersey da un gruppo di agenti, ma andò tutto bene… Ci furono alcuni fischi e qualche applauso. Si dice che al centro dei nostri problemi razziali c’è la paura. L’odio arriva dopo, la paura è istantanea. Quindi in “American Skin”, penso che ciò che ti colpisce sia la paura della madre per suo figlio e le regole che lei deve stabilire in modo che possa essere al sicuro. È semplicemente straziante dover crescere un bambino in questo modo. E il poliziotto vive nel suo mondo di paura. Ha una famiglia a casa con aspettative ed esigenze. Erano entrambi pedine viventi nella secolare risoluzione dei nostri problemi di razza. E per ogni anno che passa in cui non si affronta questo problema, si deve pagare il conto e il saldo  avviene nel sangue e nelle lacrime, nel sangue e nelle lacrime di tutti noi. Quelli erano i punti che volevo affrontare nella canzone, ed è uno dei brani di cui sono più orgoglioso. È una bella canzone. È sempre valida e ha fatto bene il suo lavoro.

Brooks: C’è una domanda che ho sempre voluto farti. Hai trascorso gran parte della tua vita scrivendo di uomini della classe operaia e, in particolare, di uomini della classe operaia che erano vittime della deindustrializzazione, che lavoravano nelle fabbriche dismesse, sia ad Asbury Park che a Freehold o Youngstown o in tutto il Midwest. Ma molti di questi uomini non hanno condiviso la tua politica. Sono diventati sostenitori di Donald Trump. Qual è la tua spiegazione per questo?

Springsteen: C’è una lunga storia di lavoratori ingannati da una nutrita lista di demagoghi, da George Wallace e Jesse Helms, a falsi leader religiosi come Jerry Falwell e il nostro presidente. I democratici non hanno realmente considerato prioritaria la questione della classe media e dei lavoratori e sono stati ostacolati dal Partito Repubblicano quando volevano apportare cambiamenti. Nell’era Roosevelt, i repubblicani rappresentavano gli affari. I democratici rappresentavano il lavoro. Quando ero bambino, la prima e unica domanda politica mai fatta a casa mia era “Mamma, che cosa siamo, democratici o repubblicani?” E lei rispondeva: “Siamo democratici perché siamo per i lavoratori”. (Ho un vago sospetto che mia madre sia diventata repubblicana verso la fine della sua vita cosciente, ma non ha mai detto nulla a riguardo!). Inoltre, c’è un diffuso senso di frustrazione causato dal ritmo lampo della deindustrializzazione e del progresso tecnologico che è stato incredibilmente traumatico per un’enorme quantità di lavoratori in tutta la nazione. La sensazione di essere buttati via, lasciati indietro dalla storia, è qualcosa a cui il nostro presidente ha attinto naturalmente. C’è risentimento delle élite, degli specialisti, degli abitanti delle coste cosmopolite, che è in parte giustificato. È dovuto agli atteggiamenti che ignorano il valore e il sacrificio che molti lavoratori hanno fatto per il loro paese. Quando le guerre vengono combattute, loro ci sono. Quando il lavoro è sporco e duro, loro ci sono. Ma il presidente attinge cinicamente ai risentimenti primari e gioca sul patriottismo per il suo puro interesse politico. Desiderano una figura che possa riportare le fabbriche a pieno regime, garantire alti salari e, per alcuni, lo stato sociale che si accompagna all’essere bianco: un elisir difficile, per pregiudizi e tutto il resto, per le persone che hanno serie difficoltà ad andare avanti. Il nostro presidente non ha dato molto alla nostra classe operaia. L’unica cosa che ha dato è stato il risentimento, la divisione e la capacità di mettere i nostri connazionali l’uno contro l’altro. Ci è riuscito, ed è così che prospera.

Brooks: Un bambino che cresceva guardando Elvis e i Beatles in “The Ed Sullivan Show” non sarebbe diventato automaticamente politico. Qual è stata l’influenza in quella parte della tua vita?

Springsteen: Nel 1975 con l’uscita dell’album Born to Run ebbi una sensazione di avere raggiunto una grande libertà personale. Qualcosa però non andava bene. Non mi sentivo appagato. Non mi sentivo a casa. Mi sentivo incredibilmente a disagio. E mi ci è voluto molto tempo per capire che la libertà personale sta alla vera libertà come la masturbazione sta al sesso. Non è male, ma non è la cosa reale. E quando ho iniziato Darkness on the Edge of Town, mi sono detto: voglio invertire l’auto. Voglio tornare nel mio quartiere e voglio capire le questioni strutturali, personali, sociali che opprimono le persone di cui sto scrivendo e tra le quali ancora vivo. Ecco dove risiede quello che sto cercando. Ed è così che la mia coscienza politica ha iniziato a svilupparsi, come preoccupazione per la mia salute morale, spirituale, emotiva e per quella dei miei vicini.

Brooks: Questo ci porta alla nostra prossima canzone, che suona come una canzone di protesta contro Trump. È “That’s What Makes Us Great” di Joe Grushecky.

Springsteen: Joe mi disse: “Accidenti, ho scritto questa canzone. Si chiama “That’s What Makes Us Great”. E questo avveniva proprio nel periodo del movimento MAGA. Ho detto: “Bene, questo è un grande titolo”. E lo è. E disse: “Perché non lo canti con me?” E così l’abbiamo cantato insieme.

Brooks: Hai detto che quando hai fatto Darkness, hai sentito il bisogno di tornare alle tue radici. Eri sulla copertina di “Newsweek” e “Time”, la tua carriera era esplosa. Potevi diventare grande e vivere ovunque. Invece, sei tornato a casa. E sei ancora lì. Sei ancora nel quartiere di Asbury Park.

Springsteen: Sì, sono ancora nel New Jersey, a 20 minuti da Asbury, a 10 minuti da Freehold e mi sento ancora molto a mio agio qui.

Brooks: Come stanno andando le cose per quelle città? Cosa ti raccontano della più ampia esperienza americana?

Springsteen: ho sempre sentito che tutti hanno questa geografia morale, spirituale, geografica emotiva, dentro di sé. Potresti vivere a Barcellona, ma puoi sentirti legato ad Asbury Park, o a un posto in cui potresti non andare mai. Ma se un cantautore scrive bene e scrive sulla condizione umana, li condurrà lì. Arriveranno lì. Abbiamo il nostro pubblico più grande oltreoceano: penso che più di due terzi del nostro pubblico ora sia in Europa. Le persone sono ancora catturate e profondamente interessate all’America, a quello che sta succedendo qui e al mito americano. La storia americana è una storia mondiale e continua ad avere un potere tremendo.

Brooks: Un’ultima domanda. Quando hai fatto il tuo spettacolo a Broadway, lo hai concluso con una versione molto diretta e intima della preghiera del Padrenostro, che ha sorpreso molte persone. Mi ha fatto tornare alla tua musica e ascoltare vecchie canzoni in modi nuovi. Hai una canzone da festa chiamata “Mary’s Place”. Ma quando lo vedi attraverso il possibile prisma della fede, è l’omaggio più felice alla Madre Maria mai scritto. Non so se l’hai scritto in quel modo. Quindi voglio solo chiederti, come provi la santità e le presenze sante nel mondo in questo momento?

Springsteen: Se guardi “Mary’s Place”, parla dell’andare in un posto dove c’è comunità, fratellanza e sostegno spirituale. Questo è ciò di cui parla la canzone in fondo, ed è ciò che riguarda la maggior parte della mia musica: “The Promised Land”, “Badlands” e il resto riguarda le persone che cercano di trovare la loro via spirituale, morale e sociale nel mondo. E cercano di trovare un posto dove poter costruire una casa, dove quei valori li sostengano. Non sono molto osservante, ma mi sento ancora vicino alla Chiesa cattolica, probabilmente solo per indottrinamento e abitudine, suppongo. I miei figli non sono battezzati… ho dei figli pagani e sembrano stare bene spiritualmente. Sono anime buone, solide! Ma faccio riferimento alla mia educazione cattolica molto regolarmente nelle mie canzoni. Ho molte immagini bibliche, e alla fine, se qualcuno mi chiedesse che tipo di artista sono, non direi che sono un artista politico. Probabilmente direi un artista spirituale. Credo davvero che se guardi il mio corpus di lavoro, questo è l’aspetto più indagato. Ho affrontato questioni sociali. Ho affrontato i problemi della vita reale qui sulla Terra. Dico sempre che i miei versi sono il blues e i miei cori sono il Vangelo, ma mi appoggio un po’ più fortemente al Vangelo rispetto al blues. Quindi mi classificherei alla fine come cantautore spirituale.

Brooks: Chiudiamo con una bella scossa da una tua amica: “People Have the Power” di Patti Smith.

Springsteen: Questo è semplicemente un grande, grande inno. E una di quelle canzoni che vorrei aver scritto, ma sono davvero molto felice che l’abbia scritta lei. Non credo che ci sia una canzone migliore di questa per questo momento.

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