35 anni fa usciva “Tunnel Of Love” di Bruce Springsteen

Data di uscita: 9 ottobre 1987

Fin dalla copertina Tunnel Of Love rappresentò uno scarto netto, spiazzante: Bruce vi compare in stolido piano americano (guarda un po’…), giacca nera su camicia immacolata, algida cravattina texana, l’espressione così vaga e imbianchita che non sembra neanche lui, al più un cugino spacciatore di auto usate. Coi primi ascolti, la drammatica evidenza: ruggito innodico? Piglio blue collar? Epica rockista? Niente di tutto ciò. Ne discutevamo con sconcerto, chi imprecando sulla fuoriuscita di Little Steven dall’entourage – peraltro sostituito dal valido Nils Lofgren – e chi maledicendo il matrimonio del Boss con la modella Julianne Philipps. Insomma, all’epoca questo disco suonò come un mesto dopo-sbronza. Una roba dimenticabile.

Lo riascolto oggi e trovo che sia un disco emblematico. A suo modo importante. Perché parla del tempo e nel tempo da cui proviene, errori e orrori compresi, raccontandoci di quando  Springsteen (l’uomo e l’artista) volle spingersi ancora una volta all’indietro, smarcandosi dalla valanga rock da egli stesso provocata (e dalla band, parcellizzata brano per brano) per non esserne travolto. Nè vetta né abisso quindi, ma un manufatto capace di operare incisioni profonde, sottili stati confusionali, sensibili perturbazioni d’anima.
Certo, Tunnel Of Love non può competere con l’intensità di titoli quali Nebraska o Darkness On The Edge Of Town. Ma è l’intensità di uno sguardo dietro una maschera di cera. Una “freddezza” – quel posarsi della melodia su emulsioni algide di tastiera – necessaria, adattissima a rappresentare quell’intimismo tormentato in cui Springsteen sentì di doversi rifugiare. Da qui la scelta, consapevolissima, di eleggere a modello melodico la vecchia Stolen Car (climax implicito della festa mesta The River), concentrando l’obiettivo sui pochi metri quadri in cui si consuma tanta parte della vita dei più, sul riflesso sfrangiato di mille esistenze regolari.

Certo, le tastiere di Walk Like A Man e Two Faces sono viscide come ranocchi di plastilina, per non dire degli sciagurati “sound effects” messi in testa alla title track, del drumming polimerizzato e di tanti sciocchi coretti a cura dell’ineffabile Patti Scialfa. Ma tant’è, erano tempi in cui l’arte della produzione andava organizzandosi in rigidi e frigidi format, sintetica mattanza da cui in pochi usciranno veramente indenni (non Lou Reed, non Neil Young…). Si potrebbe inoltre cavillare sul piglio tra l’inane e il tronfio di Tougher Than The Rest, ma – per quanto mi riguarda – le critiche finiscono qui. Sinceramente, trovo ragguardevole l’impeto di Spare Parts, la cui rabbia ancestrale supera (e di gran lunga) quella “volumetrica” di Born In The USA, mentre Brilliant Disguise ha semplicemente il passo delle ballate di razza.

Inoltre, se Cautious Man anticipa di un decennio l’uggia insidiosa del Tom Joad, One Step Up sa rendere con cruda nitidezza la resa dei sentimenti al disincanto del quotidiano. In chiusura, poi, t’imbatti nella leggerezza stagionata di When You’re Alone e Valentine’s Day, dolci trepidazioni country-folk sull’ultima luce che bagna l’asfalto, quello stesso che un tempo – irreversibile – era pur sempre Thunder Road.

La cruda tenerezza senza scampo di quei racconti in prima persona è diventato un “noi” saturo di sensazionalismo emotivo ad alto tasso retorico. Rispetto al quale, quanto più sangue, ossa, tremori, penombre e luce in Tunnel Of Love. E quanta America: quella più fragile e vera.

Stefano Solventi

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