04 Giugno 1984 – Born In The USA

Accadde oggi! 

Annie Leibovitz

La carriera e la vita di Bruce Springsteen, dopo Born in the U.S.A. non sarebbero più state le stesse. Prima di questo album, il cantante del New Jersey aveva avuto una solida carriera di successo, portando il singolo Hungry Heart (dall’album The River) nella Top 5 e l’album stesso a vendite più che significative, come del resto gli altri della sua carriera, iniziata discograficamente nel 1973.

Niente a che vedere con i quarantacinque milioni di dischi venduti da Born in the U.S.A. in tutto il mondo; il settimo album fu quello dell’esplosione del mito del Boss a tutti i livelli. Un grande e ormai famoso interprete che diventa una icona assoluta della musica e della cultura popolare a livello mondiale, portando i sette singoli estratti dall’album tutti nel Top 10 statunitense (evento ripetuto solo due altre volte nella storia delle classifiche americane) e il disco stesso a ingaggiare un lungo duello con Purple Rain di Prince per l’album in testa alle classifiche più a lungo tra 1984 e 1985. Un successo incredibile e straordinario che Springsteen, per la prima volta, aveva perseguito volontariamente. L’idea di aprirsi ad un pubblico più ampio venne al cantante, paradossalmente, proprio mentre stava componendo l’album più cupo e intimista della sua carriera, lo splendido Nebraska. Il cantante, che attraversava evidentemente un periodo straordinario di ispirazione, si trovò con un lotto di canzoni che non sarebbero state in linea con l’album che andava creando. L’atmosfera di Nebraska doveva riflettere un mood oscuro e duro, quasi ostile e senza speranza; per questo diversi brani furono scartati, ma non dimenticati, da Springsteen. In effetti, le canzoni che andranno poi a comporre Born in the U.S.A. condividono spesso una struttura acustica di partenza ed anche a livello lirico gli argomenti trattati resteranno gli stessi: gli eroi piccoli del cantante sono sempre loro, in guerra per la propria dignità e per un posto nella ricerca della felicità, diritto sancito dalla Costituzione statunitense; un mito esaltato poi da quello del “sogno americano”, quell’idea che col lavoro, col talento e con l’impegno, chiunque negli U.S.A. può trovare successo, denaro e felicità e realizzarsi a pieno. Uno scenario al quale Springsteen non rinuncia, ma del quale denuncia per converso le difficoltà, i limiti, i costi sociali e, soprattutto, i dolori individuali di chi da questa corsa folle finisce schiacciato o spinto ai limiti, ma non rinuncia alla propria dignità di uomo. Rispetto a Nebraska, però, i protagonisti di Born in the U.S.A., sembrano animati da una sorta di “pessimismo storico” leopardiano, per il quale la speranza, tutto sommato, resta un’opzione possibile, piccola, sfuocata, lontana, ma vera e palpabile. Una chiave di lettura che sarà una delle ragioni del successo del disco, in anni in cui gli Stati Uniti di Reagan ricercavano sicurezza, i contorni netti e definiti della propria identità e facevano i conti con i fantasmi del Vietnam, tentando di esorcizzare quella ferita profonda. Un parallelo questo che lo stesso Reagan tentò di sfruttare a suo favore, assicurando –o millantando- di apprezzare la musica del cantante ed i valori che lo stesso inseriva nelle proprie canzoni. Tentativo al quale Springsteen non volle rispondere direttamente, limitandosi ad affermare che, probabilmente, il Presidente pur essendo un suo fan, non aveva evidentemente ascoltato Nebraska.

Musicalmente, l’album non è poi così diverso da quello che ci si aspetterebbe di ascoltare in un disco di Springsteen: siamo sempre al cospetto di un disco di rock sanguigno e sincero, che oscilla tra brani più diretti e danzerecci e canzoni più introspettive ed acustiche, con richiami al blues e al country, ma con una nuova e per molti versi inaspettata propensione al pop da classifica. Il tutto sublimato da una produzione iperlaccata che per la prima volta apriva abbondantemente all’uso di sintetizzatori e suoni decisamente levigati e smussati con tante tastiere e arrangiamenti pomposi e carichi che contrastavano in maniera netta con le atmosfere del predecessore. Eppure, pur nella consapevolezza di quanto enunciato e pur sapendo che questa spinta di apertura alle masse fu voluta e perseguita dallo stesso Springsteen, non si può in alcun modo sostenere che la musica qua contenuta non sia onesta e sentita dallo stesso compositore, perfino nel suo episodio più vicino alle sonorità pop, quella Dancing in the Dark che da sola decretò l’immediato successo del disco. D’altra parte, il ripetuto, insistito, famosissimo tormentone della titletrack che apre l’album, tutto si rivela tranne un patriottico inno alla nazione del cantante, quanto piuttosto un chiaro atto d’accusa contro la guerra del Vietnam, combattuta da uomini senza speranza che quella di prendere il fucile, per poi tornare a casa e riprendere la stessa vita disperata di prima, con il solo ricordo degli amici morti in guerra. Certo non si può negare che quel famoso ritornello divenne un vero e proprio tormentone, ma che dire dell’interpretazione rabbiosa e sofferta del Boss, che nulla regala al patriottismo trionfante? Cover Me è invece un gran bel pezzo rock, condotto dalla chitarra solista, con un andamento irresistibile. Altrettanto può dirsi Darlington County, esempio riuscitissimo di quell’heartland rock che spopolò presto nelle classifiche americane in seguito al successo di questo disco, che trascinò con sé altri grandi autori come John Cougar Mellencamp e ridonò appeal ad altri, tra i quali Bob Seger e Tom Petty e Waylon Jennings. Ma è tutta la prima parte dell’album a mantenere ritmi elevati, come testimonia il rock’n’roll primigenio di Working on the Highway. Splendido e quasi epico l’andamento di Downbound Train, con una bella interpretazione di Springsteen che con la sua voce ruvida e roca riesce comunque a donare espressività ai brani quando necessario, diversificando il proprio approccio. Segue una delle canzoni più famose e intense del disco, I’m on Fire, pezzo se vogliamo semplicissimo e fatto di niente se non dell’interpretazione del cantante, che riesce a trasformare una canzoncina in un brano dotato di una tensione rara e potente, nella quale l’intensità sessuale è palpabile. No Surrender è l’unico brano di cui il Boss non fosse convinto, dato che la filosofia del “mai arrendersi” suonava un po’ troppo assoluta e di fatto contrastante con quella che è una delle idee profonde della poetica di Springsteen e cioè, che le cadute ci sono, che si scende a patti e a compromessi, perché la vita te li impone. Ancora due buoni brani rock con Bobby Jean e I’m Going Down e arriviamo a Glory Days. Sembra incredibile la distanza che si respira ascoltando questo brano e le sue tastiere spensierate rispetto alle canzoni di Nebraska, eppure furono scritte in contemporanea e, difatti, se si compie solo un piccolo passo dentro le liriche ecco che i giorni di gloria sono quelli rimpianti da un vecchio amico la cui vita ha avuto il suo apice quando lanciava la palla a baseball a scuola o quelli della ragazza che a scuola faceva girare la testa a tutti e ora si ritrova divorziata con due figli a carico o, ancora, quelli del padre, che dopo vent’anni di fabbrica si ritrova licenziato e senza prospettive, mentre lo stesso cantante si augura di non ritrovarsi un giorno anche lui a ricordare i momenti di gloria, ma al tempo stesso sa che questo accadrà inevitabilmente, prima o poi. Perché il tempo passa per tutti e ti lascia solo con le tue noiose storie dei giorni di gloria. Arriviamo così a Dancing in the Dark, canzone che è simbolo di un’intera epoca e nacque su insistenza del produttore Jon Landau che chiedeva a Springsteen un pezzo da classifica; è anche da questi brani che si capisce la statura di un compositore: al di là dei suoni e della produzione, marchiati a fuoco anni 80 e che forse appaiono oggi superati, come si resiste a un brano che non ha perso niente della propria potenza e della propria carica quasi epica? In nessun modo e allora non resta che accettare il gioco e ballare nel buio cercando di uscire da una situazione disperata, per la quale sembra non esistere soluzione né riscatto possibile, perché non puoi accendere un fuoco, se sei occupato a preoccuparti per il tuo piccolo mondo che crolla. Chiude My Hometown, forse il pezzo meno intrigante da un punto di vista musicale, ma uno dei più forti a livello lirico, a ripercorre idealmente tutto il disco: si apre con il protagonista da bambino, che seduto sul pick up del padre viene invitato a guardare le strade della sua città natale, crescendo arriviamo al 1965, negli anni delle lotte per l’affermazione dei diritti civili degli afroamericani; tocca quindi ad un cresciuto protagonista vedere i negozi che chiudono, come chiude la grande fabbrica tessile che dava lavoro a mezza città, finché lo stesso protagonista, ora sposato, è costretto a fare i bagagli e a trasferirsi per dare un futuro al proprio figlio, al quale non resta che mostrare le strade della sua città, prima di abbandonarla per sempre. Ancora una volta, quello che poteva apparire un trionfalismo retorico sulla “propria città”, nasconde in realtà un quadro durissimo e quasi senza speranza, se non quella di chi non si arrende e prova a cambiare il proprio destino, nonostante tutto.

 

 

 

 

 

 

Perfino la copertina di Born in the U.S.A. diventerà una icona pop e il posteriore di Springsteen in primo piano sarà l’ennesimo tassello vincente di un album che trasformerà il rocker in una leggenda. L’idea di base, era quella di mettere la bandiera in copertina, visto il titolo dell’album, che si apriva appunto con la titletrack, poi la scelta definitiva cadde su una foto di spalle perché, a detta dello stesso Springsteen, la foto del suo culo sembrava migliore della foto della sua faccia. In realtà, qualcuno volle interpretare in maniera provocatoria la copertina, sostenendo che il cantante stesse in realtà urinando sulla bandiera. Ipotesi del tutto smentita e categoricamente da Bruce Springsteen.

Siamo in conclusione al cospetto di un disco ottimo, che di per sé non sarebbe particolarmente diverso dagli altri album del cantante statunitense, non fosse proprio per la propensione voluta da lui e dal produttore Jon Landau e accompagnata dalla Columbia. La casa discografica credette nel progetto e lanciò il disco con una campagna promozionale enorme, che lo portò ad essere sovraesposto per quasi due anni, ottenendo delle vendite stratosferiche e una permanenza di 84 settimane nella top ten statunitense. Ma Born in the U.S.A. non è solo il frutto di una forte campagna pubblicitaria ed il suo valore non si misura con i record di vendita, o parleremmo di capolavoro ad ogni disco che vende molte copie. Probabilmente non è neanche il miglior disco del Boss, a dirla tutta. La verità è che, come detto nella prima parte della recensione, l’album rappresentò qualcosa di più di una raccolta di ottime canzoni: qui si misurava un intero Paese, un’intera nazione, un’intera generazione. Milioni di persone che si riconoscevano nelle parole e nella musica di Bruce Springsteen e che fecero di Born in the U.S.A. la colonna sonora di quegli anni e di quel periodo. Non capita spesso che queste convergenze si creino e questo è uno di quei casi. In questi termini, non si può non parlare di capolavoro e dopo tanti anni il tempo ha tolto poco o nulla a questi brani e questo è un altro segno del solco che questo disco ha lasciato e del valore intrinseco delle canzoni in esso contenute. Un capolavoro è per sempre.

da Metallized.it   – Annie Leibovitz photography

Commenta questo articolo