01-10-2006 – PALAMALAGUTI, BOLOGNA: “Seeger Sessions” tour

Accadde Oggi!

BOLOGNA – E’ un fuoriclasse con le gambe del mediano. In questo piccolo innocente paradosso c’ è tutta la grandezza di Bruce Springsteen. I goal, quando li fa, sono epocali, ma lavora duro, spreca sudore, corre come se dovesse scalare gli Appalachi, e si trascina appresso 17 allegri compagni di viaggio per mettere in scena l’ intera storia della musica americana. Nel nome di Pete Seeger. E’ tornato, come aveva promesso il 12 maggio a Milano, alla fine dell’ unico concerto italiano, e dopo altri chilometri, altri concerti, altre montagne scalate, la band è definitivamente una gioiosa macchina da guerra, travolge ogni resistenza, riporta la musica alla sua antica e naturale funzione collettiva, eccita gli animi a colpi di gospel, sviolinate country, accenti blues, folk songs, ritmi diversi e quasi tutti ballabili, nel tripudio degli undicimila spettatori. Springsteen si diverte, contagioso come al solito, e come al solito diverte lasciando graffi nella coscienza. La fine del rock? Non proprio. A rassicurare i fan è stato il Boss in persona, prima del concerto: «Ora ho molti cappelli da indossare» ha raccontato ridendo, «ma niente paura, sto scrivendo canzoni per la E Street band, e credo che il prossimo passo sarà quello, ma mi piace fare tutte queste cose differenti. Amo il suono della chitarra rock, l’ ho sempre amata, ma qui c’ è un calore diverso, le voci, la fisarmonica, hanno un suono caldo, è un suono accogliente, e mi piace molto, con questo gruppo posso attraversare tutta la musica americana, lo swing, la fiddle music, cajun, kletzmer». In fondo una rappresentazione, una gigantesca illustrazione storica, ma è la sua illimitata energia a polverizzare ogni rischio d’ accademia. “John Henry”, il pezzo d’ apertura, ha più di cento anni, ma sembra scritto ieri. Quando intona “Pay me my money down”, un vecchio canto marinaro, ci si potrebbe confondere. E’ un suo pezzo? Springsteen non è tipo da ricordi polverosi, per lui ciò che è morto non ha alcun interesse. Nel suo accanimento si intravede una storia fortemente personale, quelle canzoni sono la sua vita, anche se non le ha scritte lui, sono il prolungamento naturale, anche se apparentemente declinato al passato, della sua natura di menestrello, o meglio, come lui preferisce, di “storyteller”. «C’ è sempre bisogno di un narratore» racconta. «Anzi, una delle ragioni per cui hanno vinto i repubblicani è che sono stati più bravi a convincere, a spaventare, sono stati più efficaci. La gente cerca sempre i narratori, di ogni genere, positivi o negativi che siano. Io cerco di raccontare le mie storie, le mie visioni, le origini del mio paese, gli originali valori democratici che oggi sono profondamente sotto attacco, quello che ha reso l’ America grande, e quello che l’ ha resa pericolosa. Bisogna capire dove abbiamo fallito, cerco di riportare queste storie alla mia storia». L’ intreccio è profondo, inestricabile, qua e là, tra una ballata che ricorda il bandito “Jesse James” e il malinconico paesaggio western di “Shenandoah”, infila alcune sue composizioni, a sopresa “The river”, ammantata di umori celtici, ripropone “Johnny 99” («Fondamentalmente, anche se l’ ho incisa da solo con la chitarra, nasce come una specie di funk in stile New Orleans») . Cosa c’ è di più divertente di una rilettura a 17 elementi, con basso tuba, contrappunti swing, violini, e fisarmoniche? La feste campestre aggredisce la città, («sul palco c’ è una piccola città, ogni parte del paese è rappresentata») , viene a reclamare il suo posto tra i palazzi della metropoli, insinua il calore rovente di una festa da ballo attraverso la quale celebrare la rinascita, il risveglio di un’ America anestetizzata e smemorata. «La musica del mondo è questa», racconta Springsteen «quando ascolto la musica africana, sento un’ incredibile senso della lotta, inserita in una musica gioiosa, a volte c’ è un meraviglioso miscuglio di tristezza e forza». E’ la chiave di questo concerto, ballare, divertirsi nel rito del collettivo che ragiona e ritrova la sua appartenenza alle radici. E per farlo ha riattivato quello che comunemente si definisce il “folk process”, ovvero le canzoni cambiano si modificano, prendono vie diverse, si arricchiscono, si attualizzano. Per la nuova “American land”, ha preso un vecchio canto di un immigrato, già rielaborato da Pete Seeger, e ci ha messo del suo («Ci sono sempre stati problemi per gli immigranti, allora come oggi»), lo stesso con la celebre “Bring them home”, riportateli a casa, la cantava Pete Seeger, in riferimento al Vietnam, oggi la ricanta Springsteen, pensando all’ Iraq («é stata una terribile tragedia, dobbiamo trovare il modo di uscirne fuori, semplicemente non capisco, non capisco perché ci siamo caduti dentro e perché siamo ancora lì») e ha aggiunto versi presi da un vecchio canto della guerra civile, “When Johnny comes marching home”. E a proposito di marciare, alla fine canta in un sussurro “When the saints go marching in”. I santi torneranno a marciare? Nel caso, saranno in molti che vorranno essere in quel numero. GINO CASTALDO

01 Ottobre 2006 – Bologna – Palamalaguti

  1. John Henry
  2. O Mary Don’t You Weep
  3. Old Dan Tucker
  4. Eyes On The Prize
  5. Jesse James
  6. Atlantic City
  7. The River
  8. My Oklahoma Home
  9. If I Should Fall Behind
  10. Mrs. McGrath
  11. How Can A Poor Man Stand Such Times And live?
  12. Jacob’s Ladder
  13. We Shall Overcome
  14. Open All Night
  15. Pay Me My Money Down
  16. My City Of Ruins
  17. You Can Look (But You Better Not Touch)
  18. When The Saints Go Marching In
  19. This Little Light Of Mine
  20. American Land

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